Poletti che rimane ministro? Lo conosciamo bene ed è «meglio non averlo tra i piedi». Anzi no, non intendevamo questo, evidentemente ci siamo espressi male e ce ne scusiamo. È bene che i ministri possano «fare esperienze» al governo, basta che dopo abbiano la «possibilità di tornare»… alle elementari per esprimere le proprie energie e capacità, soprattutto nelle cene con i protagonisti di Mafia Capitale. Vi ha fatto sorridere questo errata corrige? E quello del ministro? A noi per niente, anzi. Ce lo potevamo aspettare da un uomo di tal spessore intellettuale e comunque una dichiarazione a mezzo stampa, se confrontata col fatto che Poletti ha definitivamente condannato, via Jobs Act, milioni di persone ad una vita di precarietà e ricatto, sembra ben poca cosa.
Pensiamo però che le parole siano molto importanti. La violenza verbale con la quale gli ultimi governi si sono scagliati contro i giovani di questo paese ha contribuito fortemente a costruire la retorica renziana sul lavoro, fatta di mistificazioni e narrazioni “tossiche”, che ha accompagnato l’offensiva finale contro i diritti e le tutele dei lavoratori. Queste dichiarazioni da Basso Impero renziano continuano a colpire esattamente in questa direzione, soprattutto dopo i risultati referendari, che ci hanno consegnato un secco “No” dei giovani al Governo Renzi e alle pesantissime riforme che li hanno riguardati in prima persona (Buona Scuola, Jobs Act). Chi è rimasto in Italia, magari perché non ha (ancora) avuto la possibilità di andar via, non si sente per niente un “pistola” e non ha di certo perdonato al ministro l’annunciato fallimento del suo cavallo di battaglia.
Il Jobs Act ha fallito, questa oramai è storia. Dopo il primo anno di assunzioni a tempo indeterminato, “dopate” dagli sgravi fiscali alle imprese (ne abbiamo già parlato qui), già si assiste ad una consistente flessione. Se abbiniamo a questo dato l’esponenziale aumento dell’utilizzo dei voucher, oramai usati come strumento di regolazione e pagamento anche del lavoro continuativo, abbiamo la misura del disastro in corso nel mercato del lavoro italiano. È in declino la retorica del “fare curriculum” e acquisire competenze come scusa per sottopagare, o non pagare affatto, il lavoro, perché non supportata da un foss’anche minimo sistema di tutele welfaristiche, sta fallendo quella che è stata felicemente definita “economia della promessa”: promessa di migliori condizioni, maggiori diritti e maggiori tutele, in un futuro che non arriva mai.
I giovani sembrano stufi, davvero saturi di tutto ciò. Gli è stata raccontata la storia di un’Europa senza confini, della possibilità di fare esperienza all’estero che però non è mai stata davvero una possibilità, bensì per molti l’unica scelta possibile. Partire per assenza di alternative, per andare a fare spesso gli stessi lavori che si facevano anche in Italia, quantomeno pagati meglio, o quantomeno pagati; partire per usufruire del welfare (o meglio, workfare) da qualche altra parte, perché in Italia gli ammortizzatori sociali in pratica non ci sono più. Gli era stata raccontata la storia della flessibilità, che si è presto trasformata in un incubo di precarietà dal quale è impossibile svegliarsi. Di storie i giovani ne hanno sentite tante e ad alcune non credono più.
La verità, caro ministro, è una bestia dura da uccidere e che torna a mordere, senza arrendersi, chi cerca di seppellirla. La verità della nostra generazione, in particolare, è decisamente feroce e difficile da addomesticare: una vita a cercare di mettere insieme tre o quattro lavoretti per guadagnare meno di mille euro al mese, una vita ad accumulare competenze che verranno vendute in qualche opuscoletto in cui si afferma che i giovani italiani sono i più preparati e i meno pagati d’Europa.
Oltre a concederci la giusta indignazione per l’ennesima uscita infelice del ministro nemico dei giovani, dell’uomo che arriva dalle cooperative rosse, è innanzitutto necessario continuare a costruire le condizioni per lo sviluppo di nuove lotte e per l’introduzione del reddito garantito. Per tornare a respirare un po’, per rompere il ricatto della precarietà, per non dover più essere costretti a fuggire e vivere finalmente l’Europa come spazio di possibilità.
Le donne hanno aperto la strada: la marea di oltre 200 mila persone scesa in piazza a Roma lo scorso 26 novembre contro la violenza di genere – pensata e nominata in tutte le sue forme, non da ultimo quale violenza sui luoghi di lavoro, violenza dei contratti precari, dei sotto-salari e del cosiddetto Gender Gap, della cancellazione dei diritti e dell’assenza di un welfare di tipo universale – ha infatti aderito e rilanciato l’appello delle argentine per la costruzione dello sciopero globale delle donne per il prossimo 8 marzo 2017. A quella data rivolgiamo il nostro sguardo, continuando la campagna contro i voucher e il lavoro gratuito, rivendicando un salario minimo europeo per combattere e abbattere la disparità salariale, un reddito garantito contro il ricatto dell’intermittenza lavorativa e della disoccupazione e per l’autodeterminazione di tutt*, immaginando infine momenti diffusi di costruzione dello sciopero secondo le indicazioni che verranno dalle donne. Convinti del fatto che le e i giovani vogliano davvero togliersi dai piedi al più presto questo nuovo governo, il ministro Poletti, la sua maledetta arroganza.
Non è una battaglia facile da vincere, al contrario, siamo consapevoli della difficoltà e dell’asfissia che le lotte sul lavoro sembrano vivere in questi anni: ma è una battaglia che vogliamo combattere e vogliamo farlo ad ogni costo, perché possiamo anche perdere ma non possiamo permetterci il lusso di arrenderci.