È una costellazione variegata il lavoro culturale, un ambito eterogeneo, spesso difficilmente inscrivibile in categorie rigide, un mondo composto da diverse mansioni, formazioni, specificità e professioni. Sono ambiti diversi che si occupano di gestire i beni culturali, di studiarli e divulgarli o di produrre cultura, di comunicarla e renderla fruibile a tutti. Sono lavori artistici quanto meticolosi, creativi ma anche scrupolosi, in cui vengono messe a valore non solo le competenze specifiche ma le proprie capacità relazionali e comunicative.
Parliamo sempre di un lavoro intermittente o estremamente precario con tutele e garanzie quasi nulle, fortemente condizionato dalla formazione permanente, strutturato sull’economia della promessa, e alimentato da tirocini non retribuiti e lavoro volontario. Insomma, sembra che il lavoro nell’ambito umanistico e culturale sia il paradigma del lavoro contemporaneo, e ne è sicuramente uno dei campi di attuazione privilegiati: una palestra del lavoro precario, per dirla in altri termini.
Un esempio: prima che i tirocini formativi diventassero inevitabili per qualsiasi corso di studio, era obbligatorio per tutti gli studenti di archeologia e di gestione dei beni culturali svolgere un tot di settimane fra scavi e musei, per imparare il mestiere e fare esperienza, perché la solo teoria (ed è vero) non bastava, perché le competenze di ognuno dovevano essere messe al vaglio sul campo. Da qui all’estensione perenne di tirocini e lavoro gratuito il passo è stato breve, e ora addirittura alcuni monumenti o piccolo musei sono gestiti interamente da personale volontario, da forza lavoro a costo zero.
Ma cosa c’era da aspettarsi? Era chiaro che in un settore completamente definanziato da decenni, che si è voluto volontariamente e scientemente impoverire, dimenticare e sottostimare, le lavoratrici e i lavoratori non sarebbero stati risparmiati dalle politiche della distruzione. E di conseguenza, come in tantissimi altri ambiti del mondo del lavoro, queste condizioni hanno contribuito a una forte frammentazione delle figure lavorative – che si sono trovate spesso isolate e ricattabili – e alla creazione di meccanismi di autosfruttamento, mascherati dall’idea della passione e dalla finta promessa in un futuro migliore.
Alla luce di questo panorama desolante, spesso ci si è rinchiusi nella solitudine della propria condizione, o ci si è ristretti in orizzonti corporativi, avendo paura di ciò che succede e sperando in una condizione personale migliore.
Ma si sa che non è mai il caso di avere paura né di sperare, ma che al contrario bisogna sempre cercare nuove armi. Queste nuove armi non possono che essere costruite insieme cercando di rompere il ricatto basato sul cattivo senso comune per cui basta la passione per andare avanti, andando oltre il corporativismo e la negoziazione al ribasso nel solo ambito di categoria.
Ed è per questo che la manifestazione indetta per il 6 ottobre ci sembra essere un bel primo passo per definire un orizzonte comune che ridia centralità al discorso sul mondo della cultura in Italia, che contrasti la formazione permanente e l’economia della promessa, che assuma come precondizioni base un aumento dei finanziamenti e la tutela e le garanzia delle lavoratrici e dei lavoratori, che contrasti chiaramente e senza nessuna deroga il lavoro gratuito e sottopagato. Per costruire una dimensione collettiva di rivendicazioni che tengano insieme l’operatore turistico quanto il performer o l’esperto di fossili preistorici, la partita iva e il tirocinante, nel mondo della gestione dei beni culturali e non solo; per un welfare universale che sappia unire tutte queste figure dello sfruttamento.
Così, ci vedremo in piazza il 6 ottobre (Roma, Porta San Paolo, ore 10) perché l’unica strada giusta è quella che si intraprende insieme, come generale è l’attacco al mondo della cultura, così la risposta deve essere comune e condivisa.