Focus

Lo sciopero nazionale delle operatrici e degli operatori Sociali

23 November 2020 |  Clap

Contro il ricatto diritti/reddito – salute. Di Diego Zerbini.

Il 13 novembre scorso, dalla Lombardia alla Sicilia, tanti lavoratori e lavoratrici del welfare (educatori scolastici, assistenti domiciliari, operatori di comunità, operatori socio-sanitari, ecc…) hanno aderito allo sciopero nazionale indetto dalla Rete Intersindacale “iOS”, una rete aperta e plurale, nata già nel corso del primo lockdown, costituita da sindacati di base, collettivi, comitati e assemblee auto-convocate dei dipendenti del terzo settore. 

In ogni piazza si è rivendicata la necessità di superare il meccanismo di esternalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici, il sistema degli appalti e degli accreditamenti, che produce precarietà per chi lavora e mortifica la qualità dei servizi erogati. Nel pieno della seconda ondata pandemica questa data assume una valenza enorme. Si apre finalmente uno spazio trasversale dove le operatrici e gli operatori sociali possono rivendicare un reddito dignitoso e la sicurezza sul lavoro, chi fruisce dei servizi, una società che metta al centro i diritti delle persone con disabilità e tutte quelle attività che permettono di prendersene cura e di tutelarne la vita. In tutte le piazze si è ribadito che se il lavoro sociale è un lavoro pubblico ed essenziale, allora il salario e i diritti devono essere equiparati a quelli dei dipendenti pubblici. È impossibile erogare servizi di qualità quando si è sottoposti ad un perenne stato di precarietà. Il salario non può essere condizionato dalla presenza o meno dell’utente e deve essere erogato 13 mesi l’anno. La maternità deve essere pagata al 100%. La malattia deve essere pagata al 100%. Deve essere pagato non solo il lavoro in presenza ma anche il lavoro di progettazione e di equipe. Si deve garantire reddito al 100% e DPI adeguati per tutta la durata dell’emergenza sanitaria. Deve essere interrotto l’uso indiscriminato dell’apprendistato, dei contratti ciclici, della riduzione unilaterale dell’orario, della discontinuità del salario, degli ammortizzatori sociali che coprono non più del 50% della retribuzione. Deve essere garantita la continuità dell’intervento. Tutti i sindacati devono avere gli stessi diritti di contrattazione.

Fino ad oggi lo sciopero è stato una pratica di protagonismo impensabile nel terzo settore, perché si tratta di un settore dove esistono gravi forme di ricatto e di mobbing, minacce di licenziamento e boicottaggio dei sindacati confederali. Ma è un percorso necessario, specialmente in questa fase di emergenza sanitaria, perché i lavoratori e le lavoratrici del welfare operano e costituiscono le fondamenta dei servizi pubblici, ma sono assunti dalle cooperative sociali, dal privato sociale e lavorano in regime di cottimo camuffato. Se un utente si assenta o si ammala non percepiscono salario. Lavorano a intermittenza, senza indennità, correndo quotidianamente rischi sanitari in luoghi di lavoro non sanificati. Assistono e si prendono cura delle persone più fragili e in difficoltà, ma restano estranei a qualsiasi decisione progettuale o ai protocolli per la sicurezza. Non ultima è la questione della formazione professionale dei nuovi operatori assunti. Nel corso degli anni, la consapevolezza del proprio ruolo, nei servizi e nei confronti dell’utente, si è vaporizzata adagiandosi pericolosamente sul piano del mero “contenimento” e lasciando nell’oblio la funzione di vettore di socializzazione e facilitatore della differenza. Negli ultimi 40 anni, lo stato ha avuto tutto il tempo per sperimentare, valutare, rimodulare i servizi rivolti alle fasce di popolazione più fragili. Lasciare l’assistenza e la cura delle persone con disagio fisico, psichico e sociale nelle mani del mercato e del regime di concorrenza è delittuoso. I servizi sono prossimi al collasso, ridotti a forme di assistenzialismo fine a sé stesso, e producono lavoro sfruttato, malpagato e privato di qualsiasi dignità professionale.

Il 13 Novembre è stata la prima tappa di un percorso difficile e di lunga durata. In primo luogo perché apre un lavoro di inchiesta e mappatura delle innumerevoli figure professionali e della galassia di contratti che caratterizzano l’universo del welfare italiano. In secondo luogo perché è ormai improrogabile la restituzione al pubblico della responsabilità del welfare in tutte le sue sfaccettature. Perché il welfare gestito dai privati è un sistema fallito. Perché il welfare è una “merce” fuori mercato. Perché all’esternalizzazione dei servizi sociali non corrisponde nessuna convenienza per le casse pubbliche. Perché lasciare gli utenti nelle mani di un sistema fallimentare significa lasciarli abbandonati a loro stessi e solo chi ha una famiglia in grado di prendersene cura si salva. Allo stesso tempo gli operatori e le operatrici sociali sono dimenticati e lasciati nelle mani di cooperative/società troppo impegnate a far quadrare i conti con il sistema dei bandi al massimo ribasso. Ora è il tempo di ascoltare chi il welfare lo costruisce ogni giorno, non si può rimandare ancora. È il tempo di una conversione sociale e culturale che permetta la costruzione di un nuovo welfare universale. Tutelare gli operatori e le operatrici sociali significa tutelare gli utenti dei servizi. E la tutela dei servizi e del lavoro sociale può esserci solo se il welfare viene definitivamente controllato dal pubblico.

Diego Zerbini è un operatore sociale di Roma, da anni attivo nelle lotte del settore. Fin dall’inizio ha costruito e partecipato alla rete nazionale iOS.