Ripercorrere la storia della scuola è tutt’altro che semplice. Si potrebbe azzardare un bilancio tenendo presenti i cambiamenti normativi più significativi, quelli che hanno condotto alla situazione odierna, e a tal fine dovremmo rivolgere lo sguardo agli ultimi decenni, orientativamente dalla riforma Berlinguer del 1996, passando per le riforme Moratti (2001) e Gelmini (2008) fino alla Buona scuola del governo Renzi e all’ultimo Piano Scuola del 2020-21, senza tralasciare i provvedimenti emessi nella fase pandemica del Covid 19. Tuttavia tali considerazioni rimarrebbero parziali e incomplete se solo pensassimo ai molteplici processi che intervengono quando si considera il mondo dell’istruzione nella sua totalità. Per tanto, dovremmo far appello non solo alla storia delle politiche scolastiche, ma interpellare coloro che il sistema scolastico l’hanno vissuto e lo vivono con partecipazione quotidiana; gli insegnanti e i membri del personale scolastico, i quali ne hanno subito e ne subiscono le distorsioni e i mutamenti, assistendo spesso alla propria svalutazione e relegazione a semplice funzionario di un’industria, quella scolastica, sempre più imprenditoriale e specializzante; gli studenti, spesso inascoltati, invisibili e marginali e ora anche reduci da oltre un anno di lontananza dalla vita “comunitaria” della scuola.
La strada sembra oscura, la via smarrita e il quadro che ci si prospetta dinnanzi è quello di un sistema scolastico in linea con i dogmi del neoliberismo e sempre più indirizzato a tenere il passo con i processi economici e a subire le conseguenze delle crisi politiche periodiche. Un esempio emblematico è il processo riformistico scolastico che ha investito l’istruzione dopo la crisi del 2008 e che diede vita al movimento dell’“Onda”, quando le proteste di scuole e università attraversavano l’Italia con lo slogan “La vostra crisi non la paghiamo”. In tutto il Pese si aperse una stagione di lotta portata avanti da professori, studenti universitari e medi contro gli interventi del governo e i piani del ministro Gelmini su scuola e università.
Tuttavia, l’attuale crisi della scuola non è riconducibile ad un’unica fase storica, ma è il risultato di numerose scelte in materia di politica scolastica, attuate senza distinzione di schieramento, dalla metà degli anni Novanta a oggi, le quali hanno condotto ad un progressivo impoverimento del ruolo pubblico dell’istituzione scolastica e della riflessione pedagogica a favore, spesso, dell’analisi economica e dei processi produttivi.
Come scrive Stefano D’Errico nel suo libro La scuola distrutta, questo processo divenuto inarrestabile, vede le sue radici nella volontà europea di riservare un ruolo crescente ad agenzie extrascolastiche verso un progressivo disimpegno da parte dello Stato e della trasformazione dell’istituzione scolastica in una fabbrica professionalizzante con la cultura dell’impresa. Questo principio a cui fa riferimento D’Errico si è mostrato non solo nella ridefinizione di alcuni ruoli, ma anche nelle ricadute lessicali: basti pensare alle figure dei presidi, che sono stati ribattezzati “dirigenti”, una trasformazione che li ha ben presto tramutati in “datori di lavoro” con licenza di assumere e licenziare, o, ancora, la famosa formula di berlusconiana memoria delle tre “i”: inglese, internet e impresa, presente nella riforma Moratti e che rappresenta un chiaro esempio di ammodernamento in senso aziendalistico.
Agendo nella direzione più sbagliata, le varie iniziative riformistiche non hanno contribuito a risolvere il problema delle disfunzioni del sistema scolastico, né hanno contribuito ad articolare un cambiamento capace di svecchiarlo e di indirizzarlo verso un quadro di partecipazione e di condivisione delle finalità educative; non sono state investite risorse nella scuola, la quale, al contrario, è stata l’istituzione che più di altre ha subito enormi e insensati tagli di fondi; infine, il personale scolastico è stato gestito in modo sempre più caotico e sconsiderato, spesso lesivo della dignità della figura professionale e svilente delle peculiarità didattiche. Se escludiamo i pesanti tagli al personale avvenuti a partire dal 2008, una delle trasformazioni che ha investito il ruolo dei docenti, è quella che ne ha visto la dequalificazione a causa di una serie di provvedimenti che hanno contribuito ad aggravarne le condizioni lavorative. Per citarne alcune: l’eliminazione del ruolo e la sostituzione con gli incarichi a tempo indeterminato; l’eliminazione degli automatismi di anzianità; gli stipendi tra i più bassi d’Europa; l’aumento del numero di studenti per classe, con conseguente aggravio del carico di lavoro, anche di carattere burocratico, per non dire intellettuale e didattico; l’assenza di iniziative, previste dal decreto legislativo del 9 aprile 2008 ma mai finanziate, tese a prevenire e risolvere il problema del burnout. A tutto ciò si aggiunge un altro triste dato, questa volta proveniente dai rapporti annuali del Censis e relativo al possesso di titoli di studio tra la popolazione italiana e sugli abbandoni scolastici. Se prendiamo i dati di pertinenza italiana e li confrontiamo con quelli rilevati nel resto d’Europa, è chiaro il primato italiano quanto alla presenza di Neet, ovvero di persone, soprattutto giovani, non impegnate nello studio, nel lavoro o nella formazione.
Il dibattito è spinoso, complicato e a tratti imbarazzante, soprattutto se si pensa che la rotta non accenna ad invertirsi, che l’Italia, come il resto del mondo, esce da una fase pandemica che ha richiesto all’istituzione scolastica uno slancio propositivo per non disperdersi e non disperdere il proprio carico umano, didattico, formativo, culturale. Uno slancio che goffamente è stato affrontato dall’istituzione scolastica in tutte le sue diramazioni territoriali.
Proviamo a soffermarci su quest’ultimo anno e mezzo per tirare alcune non semplici somme. L’anno scolastico si è concluso e sono arrivate le tante attese vacanze estive per gli studenti che hanno appena sostenuto l’esame di maturità e per quelli che il prossimo settembre siederanno nuovamente (si spera) in un aula scolastica. Anche per il corpo insegnante sono giunte le vacanze, ma diversamente da quel che si possa pensare, non tutti gli insegnanti sono uguali. Per alcuni le vacanze vorranno dire ricerca di un altro lavoro per affrontare i mesi estivi all’insegna della disoccupazione e nella migliore delle ipotesi nell’attesa di una nuova assunzione scolastica a tempo determinato nel mese di settembre. Per altri, l’estate significherà studio per il superamento del concorso ordinario che, forse, uscirà il prossimo autunno, ma di cui ancora, non solo non si sanno le date, ma anche le modalità selettive e preselettive rimangono confuse. Insomma, da qui si conferma che le mete di “villeggiatura” possono essere varie e che la scuola, purtroppo, “si fa con i sé e con i ma”. Il punto è che, se ci fermiamo ad osservare con attenzione, il quadro che abbiamo davanti agli occhi è ancora più “impressionistico”: un contrasto di luci e ombre in cui è impresso lo scorrere del tempo, il passare delle stagioni, in cui il colore sovrasta il disegno… e a settembre ci ritroveremo ancora a parlare di stabilizzazione di precarie e precari, di superamento dei blocchi sulla mobilità e del rafforzamento degli organici. Questo anche perché i provvedimenti in materia scolastica presenti nel Decreto Sostegni bis sono in gran parte inadeguati. Sul fronte dei precari e del reclutamento le misure previste sono parziali e richiedono delle modifiche importanti, a partire dalla cancellazione del requisito dei tre anni di servizio per le assunzioni dalla prima fascia fino all’inserimento della seconda fascia GPS per realizzare le assunzioni stesse. Ci riferiamo a docenti che da tre anni insegnano nella scuola secondaria e che ancora aspettano di essere inseriti nel piano di assunzioni. A loro si aggiungono gli insegnanti di sostegno ai quali andrebbe garantita non solo la specializzazione quale requisito per entrare nelle GPS di 1 fascia, considerando che la scuola ha carenza di docenti specializzati sul sostegno, ma a coloro i quali hanno 3 anni di servizio dovrebbe essere garantita la possibilità di essere stabilizzati.
Senza dubbio tra i provvedimenti più gravi del Decreto Sostegni ci sono quelli che ledono l’autonomia contrattuale: la mobilità dei docenti è una materia prettamente contrattuale che non dovrebbe subire un disciplinamento normativo, ma negoziale, in quanto andrebbe consentita la mobilità volontaria dei docenti come regolata dal CCNL vigente, il quale già prevede l’obbligo di permanenza per tre anni qualora il docente, a seguito di domanda volontaria, ottenga la scuola richiesta. Ciò dovrebbe valere per i docenti neo-immessi in ruolo, come anche per il personale DSGA (Direttore dei servizi generali e amministrativi).
Torniamo ora al concorso ordinario e alle modifiche previste dall’articolo 59, comma 13 del Decreto Sostegni. Come si accennava sopra, non si conoscono le data, anche se si pensa e si spera che verrà fissato per il prossimo autunno (tranne per le discipline STEM, in corso di svolgimento) dopo mille proroghe e mille cambiamenti nelle procedure di selezione. Ci sarà chi lo supererà e, sicuramente, qualcuno verrà bocciato. In questo secondo caso, attraverso un meccanismo escludente, non sarà possibile ripetere il concorso nell’anno successivo per la stessa classe di insegnamento. Tuttavia, la storia insegna che due concorsi per la scuola a distanza di un anno l’uno dall’altro sarebbero a dir poco impossibili, considerando che l’ultimo anno in cui si è avuto un concorso ordinario al quale i laureati non specializzati hanno potuto partecipare risale al 2012, bandito con DDG 82 del 24 settembre 2012. Questo tentativo di semplificazione è arrivato dopo diversi cambi di rotta rispetto alle procedure di selezione, le quali prevedevano un’eventuale preselettiva, due prove scritte, una prova orale, al termine della quale ai candidati vincitori sarebbero stati controllati i titoli e si sarebbe stabilita la graduatoria, procedura che presuppone almeno un anno di tempo per arrivare al termine (e che, a volte, con procedure anche più semplici, non è stato sufficiente). Una logica punitiva che avrà probabilmente delle conseguenze negative sui futuri concorsi.
Infine, il grande assente del Decreto Sostegni è l’organico straordinario (cosiddetto Covid) al quale non si accenna minimamente e che vedrà scadere il proprio contratto al termine delle lezioni. Il Covid non è l’unico virus che ha creato disperazione e frustrazione: il caso dell’organico Covid è un’esperienza svilente e disarmante. Questa categoria di insegnanti è andata ad infoltire la massa di precari della scuola, ma trovandosi in una situazione ancora più instabile, in quanto, in caso di nuovi lockdown, sarebbero stati licenziati per giusta causa e senza possibilità di ottenere indennizzo o ammortizzatori sociali.
A oggi, nella fase post-pandemica, sono almeno 200 mila i docenti precari, 70 mila dei quali hanno oltre 3 anni di servizio. Sarà veramente il doppio concorso (ordinario e straordinario) la soluzione? Quel che sappiamo è che ogni volta che il ministero dell’Economia autorizza quello dell’Istruzione ad assumere il personale, in gran parte per sostituire i pensionamenti, solo una parte dei posti viene occupato. Gli altri non si trovano perché le graduatorie sono esaurite (in particolare al Nord) e non esiste un sistema di reclutamento regolare. Ancora più drammatica è la situazione sull’insegnamento del sostegno, dove si registra la percentuale più elevata di mancate nomine (meno di 2500 su 14.593 nell’anno 2019/20).
In questo quadro si impone l’avvio immediato di un meccanismo di assunzioni che sia regolare e non più sporadico e frutto di situazione emergenziale. Altro punto importante e decisivo per dare un segnale di riconoscimento della centralità delle professioni scolastiche è quello del perseguimento, tramite il contratto, di una concreta valorizzazione del personale (dai docenti agli ATA, agli educatori) con apposite risorse stanziate in coerenza con la dignità dei lavoratori e delle lavoratrici del pubblico impiego. Per superare il precariato scolastico occorre portare avanti misure coraggiose e radicali, superare qualsiasi blocco della mobilità e rafforzare gli organici, snellire e potenziare le procedure concorsuali prevedendo risorse dedicate senza continuare a fare concorsi a costo zero o, addirittura, negando la possibilità a chi non supera il concorso di presentarsi a quello successivo.
Abbiamo solo accarezzato la punta di un iceberg che affonda le sue radici in una dimensione non solo lavorativa, normativa e tecnica. La scuola interessa la nostra esistenza in maniera profonda accompagnandoci nella vita da adulti, benché sia stata spesso un ambiente divisivo più che inclusivo, in cui trovano spazio rivalità, bullismo e marginalizzazione, nonostante i numerosi progetti e iniziative scolastiche per l’inclusione, l’autocoscienza, il sapere critico e la condivisione. Per chi fa questo lavoro in alcuni casi è una battaglia quotidiana non cedere alla rabbia, alla frustrazione, affogare dietro le procedure macchinose del sistema di reclutamento e smistamento del personale, affrontare a denti stretti anni e anni di formazione e di colpo saper assumere una maschera di equilibrio quando si sta dietro una cattedra: perché il vero lavoro dovrebbe essere nelle aule scolastiche e nei laboratori, e non sulla scalinate di un istituto ad attendere una nomina per andare a ricoprire l’ultimo posto vacante nella provincia più lontana della tua regione o sperando che il collega il cui cognome comincia con la lettera alfabetica prima della tua non sia potuto venire alla convocazione.
La parabola della scuola ci insegna che un’istituzione può funzionare bene se i processi che la interessano vengono condivisi tenendo conto di tutte le sue componenti, dalla politica alla società civile. Un sistema autoreferenziale non può che portare a delle risposte distruttive, fatte di tagli alle risorse e di visioni ideologiche conservatrici e mortificanti, lontane dagli stessi principi costituzionali. Solo con un sistema che sia in grado di attivare un processo di ricognizione e di affermazione delle necessità della scuola, intesa però come corpo vivo e pulsante e non come fabbrica di aridità e instabilità umana e materiale, potremo vedere un reale cambiamento.