Donne e libere soggettività, insieme a giovani generazioni costrette a lavori gratuiti, sottopagati, non tutelati, intermittenti, e ai migranti, segregati nei segmenti meno qualificati del mercato del lavoro, nel lavoro schiavistico, nelle attività di cura e assistenza domestica, per di più vincolati alla titolarità del soggiorno, sono tra le categorie sociali più colpite.
La pandemia ha evidenziato la centralità del lavoro delle donne nella produzione e nella riproduzione sociale. Infatti, se è vero che le donne sono state tra le più penalizzate nella riduzione occupazionale e nell’abbandono delle carriere lavorative è anche vero che sono la maggioranza nei servizi cosiddetti “essenziali” dove il lavoro è continuato con ritmi e condizioni sempre più pressanti, minando la loro salute psicofisica. Così come il lavoro di cura si è moltiplicato, trasformando lo spazio privato domestico in casa-fabbrica, casa-scuola, casa-prigione, casa-violenza.
Questa crisi sanitaria e del lavoro ci sembra il punto da cui partire per ragionare sull’oggi e mettere a tema la precarizzazione delle vite su cui si fonda la cosiddetta “ripresa”. Una categoria, quella della precarietà, che va necessariamente re-investigata e su cui si possono aprire spazi di convergenza e lotta intersezionale disvelando il nesso tra sfruttamento, sistema neoliberale e patriarcato. Ci sembra centrale, infatti, non solo interrogare le forme contemporanee del lavoro, ma anche la relazione con l’ambiente ed il consumo, la qualità e la rigenerazione dei luoghi di lavoro, il cosa e come si produce, con quali relazioni tra i soggetti, con quali nuove forme di controllo e di potere.
Il PNRR, con l’iniezione ingente di risorse europee, nella sua operazione di pinkwashing e nell’enfasi che attribuisce alla parità, opacizza colpevolmente il carattere strutturale delle disuguaglianze di genere che sono anche economiche e sociali, guarda alle sorti progressive del “capitale umano”, delle competenze sempre più adattabili al mercato, delle capacità di intrapresa, mettendo a valore la vita stessa, il tempo, finanche lo spazio e il suo attraversamento.
Proprio per queste ragioni ci sembra un campo di tensione dirimente, un terreno di scontro e di riappropriazione politica femminista e transfemminista.
Così come campo di tensione sono sempre stati i corpi delle donne e delle soggettività non binarie, costrette alla invisibilizzazione, alla segregazione, alla normazione e alla normalizzazione.
Le Clap sono parte del movimento che chiama alla manifestazione contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere del 27 novembre perché i femminicidi, i transcidi ed i lesbicidi sono aumentati in maniera drammatica ed esponenziale così come le violenze domestiche, i ricatti, le umiliazioni e gli abusi sessisti dentro e fuori il lavoro. Con un piano triennale contro la violenza scaduto nel 2020, di fronte allo stallo delle risorse per centri antiviolenza e case rifugio, sono intollerabili le passerelle istituzionali.
Attraverseremo ancora una volta lo spazio pubblico per gridare che la violenza è sistemica, che si esprime in forme molteplici e trasversali, che è espressione del potere patriarcale, che è istituzionale.
Invaderemo ancora una volta le strade di Roma per pretendere un reddito di autodeterminazione per l’uscita dal ricatto, dalla violenza e dalla dipendenza, un salario minimo legale che ci permetta di rifiutare proposte di lavoro non dignitoso, la libertà di movimento contro la violenza dei confini e dello sfruttamento, un welfare universale che punti innanzitutto alla redistribuzione, alla socializzazione ed alla valorizzazione della cura.
Ci vogliamo vivə e liberə!