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Come si dice “badante” in Ucraina?

17 March 2022 |  Clap

La numerosa presenza delle donne ucraine in Italia ci parla di salari bassi, schemi pensionistici inadeguati e assenza di welfare. E rende ancora più chiara l’ipocrisia della corsa all’accoglienza della politica italiana. Uno sguardo al mercato del lavoro di cura e assistenza domiciliare.

Di Francesco Ferri e Antonio Sanguinetti, attivisti delle Clap

Badante è spesso usato come termine dispregiativo per indicare le lavoratrici di cura e assistenza agli anziani. Si tratta di un lavoro relativamente nuovo, nei decenni passati questo compito era affidato alle donne di casa, mogli e figlie. Si era nell’epoca del “doppio lavoro” femminile, sospese tra lavoro dentro e fuori le mura di casa. Del resto fino agli anni ’90 solo le famiglie abbienti potevano permettersi di pagare lo stipendio di una lavoratrice domestica. Negli ultimi trent’anni però molto è cambiato. L’invecchiamento della popolazione, la progressiva destrutturazione della famiglia e l’emancipazione delle donne dal lavoro riproduttivo hanno stravolto nel profondo la società italiana. I mutamenti però non sono andati di pari passo con una nuova prospettiva welfaristica. I governi hanno continuato a inviare trasferimenti monetari agli anziani senza creare delle strutture adeguate alla loro assistenza.

Una politica miope che ha lasciato l’ultima responsabilità in capo alle famiglie. La scelta era dunque tra accompagnare il proprio familiare nelle famigerate Rsa o cercare delle lavoratrici che potessero assistere i propri cari. Va da sé che quasi tutti hanno scelto la seconda opzione. Si è sviluppata in tutta Italia, da Nord a Sud e in maniera tendenzialmente trasversale alle classi sociali, un’enorme domanda di lavoro domestico che è stata colmata con l’arrivo di donne migranti. La costruzione di questo mercato del lavoro è avvenuta senza norme che potessero strutturare e regolare l’incrocio tra domanda e offerta. L’informalità è stato – e lo è tuttora – il tratto peculiare del lavoro domestico. Il ruolo di intermediazione è spesso svolto dalle strutture religiose: le parrocchie sparse in ogni quartiere o paesino funzionano da centro per l’impiego delle donne migranti. Forme anche molto acute di sfruttamento costituiscono il prodotto finale di questa dimensione informale. Ore di lavoro massacranti, paghe basse, poche tutele e in alcuni casi anche maltrattamenti. Le loro rivendicazioni, però, fanno fatica ad uscire dalle quattro mura di casa e hanno pochissima visibilità sui media mainstream. Come se il loro lavoro fosse in qualche modo dovuto, esito di un’estensione di obblighi familiari nei confronti delle lavoratrici.

Il mercato del lavoro dell’assistenza agli anziani è segnato, come molti altri, dalle linee della razza e del genere. Donne migranti, per lo più bianche e di religione cristiana, costituiscono l’architrave di questo settore. Per alcuni gruppi nazionali ciò ha contribuito a configurare un evidente sproporzione nella composizione di genere della popolazione presente in Italia. Le persone provenienti dall’Ucraina rappresentano il caso più macroscopico. Sono la quinta provenienza nazionale e contano circa 235 mila persone sparse in quasi tutte le regioni, con la presenza femminile raggiunge quasi l’80% delle residenti totali. Vivono, però, una condizione di segregazione occupazionale che avviene a prescindere dal titolo di studio (il 20% ha una laurea) e dal proprio percorso lavorativo pregresso. Infatti, la loro collocazione nel mercato del lavoro è caratterizzata dalla massiccia presenza nel settore dell’assistenza alla persona, un lavoro che viene svolto dal 65% degli occupati e delle occupate. È facile immaginare che la quota di donne impegnate in questo settore sia ancora più alta. La segregazione occupazionale si accompagna alla povertà lavorativa: lo stipendio medio mensile delle domestiche ucraine è di circa 680 euro. Le residenti ucraine in Italia hanno un’età media molto alta, circa il 25% ha più di 60. Alcune ricerche hanno mostrato come questo dato sia connesso ad uno dei principali motivi della loro partenza dall’Ucraina, ossia il mancato accesso al sistema pensionistico. Tuttavia, spesso rimangono intrappolate in un limbo poiché anche in Italia difficilmente riescono a raggiungere i requisiti pensionistici. Ciò avviene a causa di rapporti di lavoro irregolari, saltuari e una carriera lavorativa di breve durata. Dunque, la loro condizione di vulnerabilità economica si estende anche nella fase di vita più anziana. Ciò è causato anche dall’assenza di accordi bilaterali tra gli enti di previdenza dei due paesi. Una condizione che, molto probabilmente, peggiorerà a causa della guerra.

Di tutti questi problemi la società italiana ha raramente discusso, ma dopo lo scoppio della guerra i Tg e i talk show hanno acceso i riflettori su di loro. Anche il Segretario del Pd, Enrico Letta, ne ha lodato l’integrazione in Italia, tuttavia mentre lo affermava si sentivano in sottofondo le risate di scherno di Lucia Annunziata e Antonio Di Bella che deridevano una comunità fatta di “cameriere, badanti…e amanti”. Eppure nei duri mesi dell’emergenza Covid-19, la percezione diffusa dell’importanza cruciale di questa componente della forza lavoro è aumentata esponenzialmente. Sono state tra le lavoratrici che hanno continuato a svolgere il proprio impiego nonostante il pericolo del contagio. Questo, per chi lavorava a stretto contatto con persone anziane o bambini, si è tradotto in una responsabilità enorme, di vita e di morte. Nonostante ciò, sono state poco attenzionate dalle misure di welfare e di sostegno introdotte dal governo durante la pandemia. Solo dopo considerevoli pressioni gli aiuti sociali sono stati estesi a “colf e badanti”. Del resto, la parola usata da Letta – “integrazione” – ha una chiara connotazione. Si rivolge ai e alle migranti povere e svantaggiate, che possono aspirare all’ingresso nella sfera dei diritti solo se compatibili con l’immaginario della lavoratrice meritevole, disponibile e disciplinata.

Nei giorni della tragedia della guerra, molti politici – anche di destra – hanno dichiarato di offrire ospitalità nella propria abitazione alle famiglie ucraine. Tuttavia sarebbe il caso di fargli notare che le donne ucraine sono già nelle nostre abitazioni. È quantomeno ipocrita aprire le proprie camere degli ospiti per mostrarle alle telecamere e ai giornalisti, mentre in un’altra stanza le donne ucraine lavorano incessantemente per pochi spiccioli. Viceversa, se il tema è effettivamente la tutela delle persone provenienti dall’Ucraina, è indispensabile riformare strutturalmente il mercato del lavoro e il welfare per sottrarre le donne ucraine dalla condizione di povertà. L’introduzione del salario minimo, l’accesso a un reddito di cittadinanza di ampia portata, l’ampliamento degli schemi pensionistici possono contribuire a invertire la tendenza.