Di Francesco Ferri
Con il decreto legge n. 124 del 19 settembre 2023, il governo ha modificato alcuni dei profili che disciplinano la detenzione amministrativa dellə migranti. Le novità introdotte riguardano essenzialmente due aspetti: la durata massima del trattenimento – che ora può arrivare a 18 mesi – e la governance dei centri di permanenza per il rimpatrio [d’ora in avanti, CPR]. Per quanto riguarda questo secondo tema, è previsto che «il Ministero della difesa, mediante le proprie competenti articolazioni del Genio militare, l’impiego delle Forze armate e avvalendosi di Difesa Servizi S.p.A., è incaricato della progettazione e della realizzazione delle strutture individuate dal piano, dislocate sul territorio nazionale. Tali opere sono dichiarate di diritto quali opere destinate alla difesa e sicurezza nazionale».
L’ideologia che informa queste due previsioni è limpida: il governo spinge con decisione sull’acceleratore delle politiche securitarie. Il richiamo alla «difesa» e alla «sicurezza nazionale» è un segnale ad ampio spettro: al di là delle ricadute operative di tale disposizione, tutte ancora da indagare, è denso di implicazioni politiche e simboliche.
Tra le molteplici lenti attraverso le quali può essere letto il nuovo intervento del governo, in questa fase prevalgono interpretazioni di tipo etico e ideologico. A queste letture – molte delle quali indispensabili per ricostruire, nella sua complessità, la gravità dell’attacco alle e ai migranti – può essere utile aggiungerne un ulteriore punto di vista. Quale impatto avranno le misure adottate dal governo sulla forza lavoro straniera?
ll decreto è stato emanato nei giorni in cui a Lampedusa si è registrato un significativo aumento degli approdi; la misura è stata esplicitamente presentata come una risposta all’emergenza sbarchi. Nell’ordine del discorso formulato dalla presidente Meloni e dalla maggioranza, l’intensificazione della detenzione amministrativa nei CPR è lo strumento principale per contenere la mobilità attraverso i confini e per trattenere, in maniera generalizzata, chi arriva via mare.
Molte organizzazioni, molti movimenti e molti attivistə hanno denunciato quanto questa narrazione sia strutturalmente errata. Chi attraversa il Mediterraneo centrale e, dopo l’approdo in Italia, manifesta la volontà di richiedere asilo, è successivamente accompagnato nelle strutture di accoglienza. Lə richiedenti asilo finiscono nei CPR solo in condizioni eccezionali. Con il decreto cd. Cutro è stata sì introdotta la possibilità, ad alcune condizioni, di esaminare la domanda di asilo direttamente in frontiera, in maniera accelerata – cioè con meno garanzie procedurali – e in condizioni di trattenimento, ma questa previsione riguarda in prima battuta gli hotspot – le strutture poste vicino ai luoghi di frontiera – e non i CPR. Peraltro, in sede giudiziale sono stati annullati i primi provvedimenti adottati nei confronti di alcuni cittadini tunisini trattenuti a Pozzallo proprio in ragione della novità introdotta con il cd. decreto Cutro.
Si tratta di due modelli di trattenimento molto diversi: la detenzione in frontiera per lə richiedenti asilo ha una durata massima di quattro settimane – ben distante dai 18 mesi ora previsti per i CPR – proprio perché la ratio è completamente diversa: esaminare velocemente – e con meno garanzie – le domande di asilo direttamente in frontiera nel caso degli hotspot, trattenere con finalità espulsiva nei CPR.
Le nuove misure introdotte in relazione ai CPR, quindi, non contemplano affatto il trattenimento diffuso di tutte le persone che arrivano via mare – prospettiva irrealizzabile per motivazioni di carattere giuridico e finanche logistico. Chi sono effettivamente lə destinatariə principali del nuovo decreto emanato dal governo?
Per approssimare risposte plausibili bisogna porre lo sguardo nel punto diametralmente opposto rispetto a quello indicato dal governo. L’esecutivo ci invita a discutere continuamente di arrivi, salvataggi in mare, porti. Viceversa, è indispensabile interrogarsi sull’impatto che le nuove misure avranno anche su alcune delle soggettività tendenzialmente ignorate dal dibattito pubblico, anche settoriale: la forza lavoro costituita dalle persone con cittadinanza extraeuropea.
Com’è noto, per le persone che vivono stabilmente in Italia, che hanno una cittadinanza extraeuropea e che sono fuori dal circuito della protezione internazionale, la possibilità di ottenere il rilascio o il rinnovo di un permesso di soggiorno è legata, a doppio filo, alla disponibilità di un lavoro regolare. Da questa prospettiva, l’aumento della durata massima delle detenzione amministrativa, la ristrutturazione della governance in senso securitario e la paventata apertura di nuove strutture sono un messaggio chiaro nei confronti dellə cittadinə dei paesi non europei costantemente vincolati al rinnovo del permesso di soggiorno. Non si tratta di migranti in senso stretto: in moltissimi casi la forza lavoro esposta al rischio del trattenimento nei CPR è composta da uomini e donne soggiornanti in Italia anche da moltissimo tempo.
Non si tratta, quindi, di una risposta – ancorché securitaria – all’aumento degli arrivi via mare: le nuove misure rappresentano una doppia trappola nei confronti della forza lavoro straniera. Chi è sottoposto al trattenimento nei CPR – ora fino a 18 mesi – è fisicamente intrappolato nelle strutture detentive, con la prospettiva di poter essere effettivamente rimpatriatə coattivamente nel paese di origine. I CPR producono effetti materiali anche nei confronti della forza lavoro regolare, vincolata al rinnovo del permesso di soggiorno. È un effetto indiretto ma estremamente concreto della detenzione amministrativa: il timore di poter essere trattenutə – e potenzialmente anche rimpatriatə – in ragione della possibile perdita del lavoro intrappola moltissimə cittadinə nelle posizioni più basse della gerarchia che informa il mercato del lavoro.
Sarà indispensabile valutare, nel medio periodo, quali saranno le conseguenze effettive del nuovo decreto. Come moltissimi studi raccontano, non è affatto detto che all’aumento del tempo massimo di trattenimento nei CPR corrisponda un effettivo incremento del numero dei rimpatri. Altri fattori – come ad esempio la ratifica e l’implementazione di efficaci accordi con i paesi di origine – sono più determinanti in tal senso. Anche l’annunciata apertura di nuove strutture detentive non è detto che effettivamente si realizzi. Negli ultimi anni, infatti, in più di un’occasione sono state annunciate iniziative di questa tipologia; finora raramente si sono tradotte nell’effettiva apertura di nuove strutture.
In ogni caso, il decreto del governo produrrà effetti reali anche al di là dell’impatto operativo delle nuove misure. È un argomento ampiamente indagato negli studi critici in tema di politiche migratorie: l’approvazione di nuove norme configura forme di disciplinamento discorsivo che anticipano – e spesso rafforzano – l’impatto materiale delle disposizioni. La relazione tra la produzione di norme, la dimensione dell’assoggettamento e lo spazio della soggettivazione per la forza lavoro di origine extraeuropea è stata al centro di rilevantissime ricerche – e molteplici esperienze di lotta – soprattutto nel primo decennio degli anni 2000
In seguito, l’intensificarsi della guerra alla mobilità delle e dei migranti lungo il Mediterraneo centrale ha favorito il progressivo appiattimento delle analisi e delle iniziative politiche, che negli ultimi anni hanno riguardato soprattutto le fasi immediatamente precedenti e successive agli sbarchi. Le ragioni dell’interesse diffuso nei confronti delle dinamiche di frontiera sono evidenti: i governi, spesso senza soluzione di continuità, hanno prodotto un attacco generalizzato nei confronti di chi attraversa i confini.
In questa specifica fase politica può essere utile provare ad allargare lo sguardo: le molteplici forme di confinamento non si esauriscono con lo sbarco. Una lettura puntuale del decreto 124 suggerisce che, per comprendere a pieno le attuali politiche di razzializzazione, di sfruttamento e di accumulazione, è indispensabile prestare attenzione anche alle condizioni di vita e di lavoro di chi risiede stabilmente in Italia. La prospettiva di chi svolge attività sindacale può completare e arricchire il quadro, e favorire la comprensione delle politiche migratorie nella loro complessità. È come se, periodicamente, la doppia trappola strutturale nei confronti della forza lavoro straniera debba essere innervata da nuovi provvedimenti minacciosi affinché non perda la sua efficacia. Questa dimensione ci parla, in ultimo, anche del potenziale conflittuale – in parte visibile grazie alle molteplici forme di resistenza molecolare e organizzata attualmente in campo, in parte ancora non emerso – costituito dall’insieme delle soggettività straniere sfruttate e razzializzate all’interno del mercato del lavoro.