A Roma diverse reti sociali si stanno confrontando sulla necessità di costruire uno spazio pubblico di movimento che abbia al centro la rivendicazione del reddito di base e incondizionato (RBI) e la riconquista dei diritti dentro ed oltre il lavoro. Negli ultimi anni la crisi e le politiche di austerity adottate dietro “il ricatto del debito” hanno agito come un dispositivo di “livellamento verso il basso” – facendo regredire garanzie sociali e i diritti acquisiti – seppur con un intensità diversificata e stratificata, rendendo la precarietà una condizione sociale generalizzata. Le riforme Monti-Fornero hanno ulteriormente flessibilizzato il mercato del lavoro e tagliato i fondi del nostro sistema previdenziale e welferistico. Questa è una bozza in progress di una carta d’intenti, immaginata come strumento di sensibilizzazione e ricomposizione sociale che si pone come obiettivo praticabile quello di aprire un confronto vero tra le diverse realtà sociali attive da anni su questo terreno: il sindacalismo conflittuale, i movimenti per il diritto all’abitare, le rete associative, i collettivi di precari, le reti studentesche, i lavoratori precarizzati, i centri sociali e tutti coloro che vogliono contribuire ad intensificare, coordinare e generalizzare il conflitto sociale necessario per imporre in forma adeguata il reddito di base e incondizionato come orizzonte di ridefinizione dei nuovi diritti.
· L’Italia resta al di fuori dei parametri europei continuando a disporre di un lacunoso ed iniquo sistema di ammortizzatori sociali che esclude il variegato universo dei precari e dei soggetti non coperti da nessun sistema di protezione sociale.
· L’istituzione di un reddito di base e incondizionato rappresenta un mezzo per lottare contro la precarietà (sociale e) lavorativa e il basso livello di remunerazione (in Italia i salari sono tra i più bassi d’Europa), evitando che una parte crescente della popolazione – com’è avvenuto nei 6 anni di crisi – cada nella “trappola della povertà”. Il reddito di base e incondizionato fornirebbe ai precari e ai precarizzati il potere di non accettare qualsiasi lavoro e di opporsi alla precarizzazione. Quindi il reddito di base e incondizionato è un freno alla politica di ribasso del costo del lavoro.
· Per reddito intendiamo un intervento economico universale ed incondizionato, ovvero l’erogazione di una somma monetaria a scadenza regolare e perenne in grado di garantire la riproduzione delle vite singolari. Oltre al reddito diretto vogliamo garantiti i bisogni comuni (formazione, comunicazione, mobilità, socialità, abitare) attraverso forme di reddito indiretto che possono essere erogate attraverso le competenze degli enti locali (in questo senso la Legge 4/2009 nella regione Lazio dovrebbe garantire questi diritti).
·Il reddito è il riconoscimento della produzione sociale permanente di cui siamo portatori, ricompensa forfettaria dell’appropriazione finanziaria che le forme della cattura e sottomissione producono dentro le leve della nuova valorizzazione capitalistica, della sua continua innovazione produttiva e tecnologica. Quindi non si tratta esclusivamente di redistribuire la ricchezza- il ché non sarebbe poco in questo momento, se avvenisse senza il ricatto dell’impiego precario da accettare – ma si tratta anche di riconoscere – e quindi retribuire – la produzione sociale che avviene ogni giorno.
· Il reddito è un diritto fondamentale della persona (quindi soggettivo) che tutela il diritto ad un’esistenza autonoma, libera e dignitosa, indipendentemente dalla prestazione lavorativa effettuata per questo respingiamo i provvedimenti annunciati dal neo-governo Letta che parlano di reddito minimo esclusivamente per le famiglie bisognose con figli a carico.
· Il reddito è un diritto non discriminante nei confronti di nessuno che deve essere erogato a nativi e migranti a prescindere dalla cittadinanza perché concorre a definire la piena cittadinanza sociale e il pieno godimento delle libertà civili.
· Il reddito non è un sussidio di povertà, quindi non è una forma di salarizzazione della miseria e dell’esclusione sociale. Il reddito non è un sussidio di disoccupazione.
· Il reddito non è vincolato all’accettazione di nessuna offerta formativa e/o lavorativa, di conseguenza non ha un regime sanzionatorio, fondamentale strumento di controllo sociale utilizzato nelle attuali politiche attive del lavoro basate sulwelfare to work.
· Partendo dalla rivendicazione di reddito (RBI) chiediamo che venga istituito per tutti e tutte a prescindere dalla cittadinanza un salario minimo orario che stabilisca il principio che un’ora di lavoro non venga pagata meno di un certo valore.
· Nonostante il nostro iniquo ed arbitrario sintema di ammortizzatori sociali ci sembra fondamentale sostenere le lotte per il rifinanziamento delle cassintegrazioni in deroga
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· Per costruire un senso comune che ricomponga la rivendicazione del reddito con quella della liberazione di parte del tempo di vita con la riduzione d’orario a parità di salario per redistribuire intanto il lavoro che c’è, riteniamo fondamentale sostenere e promuovere iniziative di lotta come l’esproprio e l‘autogestione delle aziende che chiudono riappropriandosi di parte della ricchezza socialmente prodotta.
Riforma Fornero – legge 28 giugno 2012, n.92.
La “legge Fornero” aveva come incipit alla sua creazione le finalità di migliorare la flessibilità in entrata, riducendo le tipologie contrattuali atipiche e temporanee a favore di quelle a tempo indeterminato, e di introdurre nuovi elementi a favore della flessibilità in uscita, sia in materia di licenziamento (modifica dell’art. 18) che di ammortizzatori sociali.
La prima finalità è però contraddetta dalla modifica più importante introdotta in materia di contratti temporanei, con la possibilità di stipulare il primo contratto a termine, o di lavoro somministrato, senza la necessità di specificare la ragione per cui si assume a termine, con un limite massimo di durata che può arrivare fino a dodici mesi.
Questa modifica peggiora gravemente la condizione sociale dei lavoratori precari, destinati a passare da un’impresa all’altra e da un “primo” contratto a termine o somministrato all’altro, senza possibilità di crescita professionale e perdendo la possibilità di far valere i diritti collegati alla carenza di una reale necessità da parte dell’impresa di impiegare solo temporaneamente quel lavoratore.
In merito alla riduzione delle tipologie contrattuali, l’unico contratto eliminato è il contratto di inserimento, del quale peraltro viene meno la necessità per le imprese, libere ora di assumere a termine.
Sulla seconda finalità, la Riforma Fornero è finalizzata a rinnovare la normativa in materia di licenziamento modificando l’art. 18. Per quanto rigurda i licenziamenti, sono cambiati i tipi di conseguenze in cui il datore di lavoro incorre nel caso di provvedimento illeggittimo, ma non sono cambiati i tipi di licenziamento: i licenziamenti discriminatori e quindi nulli; i licenziamenti per motivi disciplinari, con applicazione, secondo i casi nell’ipotesi di annullamento del licenziamento, della reintegrazione ovvero dell’indennità risarcitoria; i licenziamenti per motivi economici, con applicazione solo eventuale della reintegrazione (nei casi di più manifesta ingiustificatezza) o del solo indennizzo.
Fino alla riforma, la reintegrazione rappresentava l’unica conseguenza in caso di licenziamento illeggittimo. Adesso il reintegro continua ad applicarsi per il licenziamento orale e per quello discriminatorio, per gli altri casi si prevede un’indennità risarcitoria, il cui ammontare è quantificato dal Giudice a secondo che sia una violazione formale (da sei a dodici mensilità) o un provvedimento insufficentemente motivato (da dodici a ventiquattro mensilità).
Sembra evidente che le conclusioni di molti ricorsi di impugnazione dei licenziamenti economici, che saranno la stragrande maggioranza se non addirittura l’esclusività, dovranno essere finalizzate a rivendicare la discriminazione, il motivo illecito determinante e la sanzione disciplinare simulata, dopo avere smontato (ove possibile) la motivazione economica.
La finalità di rinnovare il sistema di welfare si riducono nella creazione dell‘Aspi una sorta di sussidio di disoccupazione di durata di massimo 12 mesi e di contenuto modesto, privo di un reale carattere di universalità, poiché si attiva solo al versamento preventivo di contributi da parte del disoccupato. Sono esclusi coloro che il posto di lavoro non l’hanno mai avuto o che lo hanno avuto per un periodo contributivo inferiore al minimo stabilito dalla legge (almeno 13 settimane contributive nel periodo di un anno per poter accedere alla mini Aspi).
[SCARICA Legge 28 giugno 2012, n.92 ]
Riforma del Collegato Lavoro – legge 4 novembre 2010 n. 183.
Con la legge del 4 novembre 2010 n. 183 e’ stato introdotto l’obbligo di impugnazione entro 60 giorni per ogni forma di cessazione (scadenza o interruzione) di tutti i contratti atipici (contratti a termine, collaborazioni a progetto, somministrazione etc.). Tale obbligo è inoltre esteso nei casi di allontanamento verbale dal posto di lavoro. Questa formula appare come un condono alle aziende che hanno in questi anni abusato del lavoro precario ai danni dei propri dipendenti, e sicuramente è il tratto più preoccupante, ma non l’unico, del Collegato Lavoro.
Sostanzialmente le altre modifiche vedono l’introduzione della possibilità di spostare le vertenze di lavoro dall’autorità giudiziaria a collegi arbitrali, privatizzando in questo modo la funzione dei giudici del lavoro. Allo stesso modo la certificazione dei contratti di fatto “regolarizza” la ricattabilità che prima era implicita nel rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, anziché risolverla.
Viene, infine, forfetizzato il risarcimento del danno dovuto al lavoratore che si sia visto riconoscere l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro. Mentre prima il risarcimento era commisurato alle mensilità perse per effetto dell’illegittima cessazione del rapporto di lavoro, ora viene liquidato fra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità di retribuzione.
[ SCARICA Legge 4 novembre 2010 n. 183 ]
Legge Biagi – legge 14 febbraio 2003 n. 30.
La legge del 14 febbraio 2003 n. 30 ha normato un elevato numero di forme contrattuali flessibili. In realtà, forme come il lavoro ripartito, il lavoro a chiamata o lo staff leasing sono poco o per nulla usate. Le società (soprattutto quelle medio-piccole), hanno sfruttato solo una piccola parte dell’ampio ventaglio di soluzioni messo a disposizione.
Il contratto a progetto (co.co.pro.) è divenuta la forma prevalente di regolazione del rapporto di lavoro; con la Legge Biagi/Maroni l’azienda può assumere lavoratori di tipologia flessibile in base ad un “progetto” in cui indica lo scopo della prestazione e la sua durata. L’assunzione di lavoratori formalmente autonomi ha comportato un risparmio per le aziende, ma una penalizzazione per i lavoratori, spesso impiegati come veri e propri lavoratori subordinati ma senza gli stessi diritti dei loro colleghi. L’abuso di tale contratto inoltre esclude un percorso professionale che porti all’assunzione a tempo indeterminato, perciò lascia il lavoratore in una situazione di precarietà “cronica”: non ha diritto alla formazione, è completamente escluso dalla partecipazione all’attività dell’azienda, e versa in una situazione di debolezza, nella quale, di fronte al rischio di un mancato rinnovo contrattuale, più difficilmente rivendica i suoi diritti salariali e di sicurezza. Questa condizione di precarietà ricade sull’impossibilità di una progettualità di vita.
In primo luogo, alla flessibilità del lavoro, di fatto non è seguita una riforma parallela degli ammortizzatori sociali. In secondo luogo, nel mercato del lavoro, le retribuzioni e i livelli di qualifica non sono proporzionate al livello di istruzione crescente delle ultime generazioni e alle aspettative di mobilità sociale: in un contesto economico in cui non è facile il ricollocamento nel mondo del lavoro, i lavoratori sono più ricattabili.
E’ la realizzazione più potente della precarizzazione del lavoro e conseguentemente delle nostre vite.
La legge (legge 30 luglio 2002, n. 189) modificava le norme già esistenti in materia di immigrazione e asilo, cioè il “Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”. La Bossi-Fini inoltre cambiava e integrava una modifica precedente, la cosiddetta Turco-Napolitano, legge n.40 del 6 marzo 1998 confluita poi nel Testo Unico.
In particolare, nella legge Bossi-Fini la permanenza legale del migrante sul territorio nazionale è subordinata all’esistenza di un “contratto di lavoro”. Questo appare un tratto molto preoccupante nel considerare un essere umano come un valore utilitaristico valido solo ai fini della produzione, del profitto e della rendita. Infatti, persa l’occupazione il migrante ha diritto ad un termine di dodici mesi prima di dover lasciare l’Italia, aggravando ancor di più la considerazione che il mercato fa di quelle che sono persone. Appare chiaro che ricollocarsi sul mercato del lavoro entro sei mesi è oggi, in piena crisi economica, già difficile di per sé, e a maggior ragione ancor più per un migrante in condizione di clandestinità o illegalità.
In generale, rispetto alla precedente legge Turco-Napolitano, che già sanciva la necessità degli ignobili Centri di Permanenza Temporanea (i CPT sono aggi sostituiti con i CIE, ovvero centri di identificazione ed espulsione, nome decisamente più autoritario e altisonante, che rimandano ai già tristemente noti lager del passato), la Bossi-Fini prevede l’obbligo del contratto di soggiorno, ma ha dimezzato la durata dei permessi di soggiorno stessi e i tempi di ricerca di un nuovo lavoro dopo la disoccupazione. Per quanto riguardava le espulsioni, invece, come nella legge Turco-Napolitano, fu deciso allora come lo straniero senza permesso di soggiorno doveva essere espulso per via amministrativa: se privo di documenti veniva portato in un centro di permanenza per sessanta giorni, necessario ad identificarlo e poi espellerlo; nel caso non venisse identificato, al clandestino erano concessi tre giorni (e non più 15) per lasciare il territorio italiano. E’impossibile non relazionarsi al trattamento oggi riservato ai migranti che giungono nel nostro paese, sottoposti al giogo delle mafie, del lavoro nero, dello sfruttamento, che devono oltretutto fare i conti con una vita legata indissolubilmente ad una certezza lavorativa che oggi in Italia non esiste. Il reato di clandestinità sembra camminare a braccetto con la precarietà di vita per molti migranti.
La Bossi- Fini oltre a voler regolamentare ingressi e permessi di soggiorno, aggiunge anche l’obbligo del rilevamento e della registrazione delle impronte digitali (sia per chi chiede il permesso di soggiorno, sia per chi ne richiede il rinnovo): ovvero sono tutti schedati come criminali a prescindere.
Non esiste discontinuità nei vari testi che hanno regolamentato in questi anni il tema, tanto che rimane una forte ambiguità: da una parte si e’ molto più rigidi e severi, pensando di aver superato il problema (cosa che i dati non assecondano) e dall’altra, con l’introduzione del reato di clandestinità, esiste ed è più reale che mai, il “rischio” di un’immigrazione che non si può sanare in alcun modo, perché non emerge dall’illegalità. Risultati sicuramente migliori si sarebbero potuti ottenere agendo per esempio sul lavoro nero (ed ecco il nostro contributo), che non e’ mai stato aggredito veramente.
[ SCARICA Legge 30 luglio 2002, n. 189 ]
Il pacchetto Treu (legge 24 giugno 1997 n. 196) segna il vero e proprio inizio della precarizzazione del mondo del lavoro, manifestando appieno che il ribaltamento del garantismo e dei diritti è ormai assicurato non più ai lavoratori ma ai padroni e al profitto. La legge del 24 giugno 1997 n.196 riconobbe una realtà già esistente da qualche anno in Italia, in quanto conteneva disposizioni che regolavano direttamente determinati istituti (apprendistato, lavoro interinale), disposizioni sulla produzione legislativa futura e disposizioni di rinvio della contrattazione sociale, ed introdusse dal punto di vista giuridico l'istituto del tirocinio.
Il lavoro interinale, precedentemente vietato dalla legge 23 ottobre 1960, n. 1369 (“Divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell'impiego di mano d'opera negli appalti di opere e di servizi”), entra a far parte dell'ordinamento italiano del lavoro con questa legge, dando di fatto l’avvio ai successivi smantellamenti di qualunque forma di diritto del lavoro positivo che non fosse proiettato verso una precarizzazione della vita lavorativa, sociale, affettiva e del futuro della società.
[SCARICA Legge 24 giugno 1997 n. 196 ]
Le dimissioni sono l'atto con cui un lavoratore dipendente recede unilateralmente dal contratto che lo vincola al datore di lavoro.
Secondo la legge le dimissioni si configurano come una facoltà del lavoratore. Questa facoltà può essere esercitata senza alcun limite, con il solo rispetto dell'obbligo di dare il preavviso previsto dai contratti collettivi.
Le dimissioni consistono quindi in un atto volontario del lavoratore. In questo senso sono da considerarsi illegittime le dimissioni estorte o richieste contestualmente all’atto dell’assunzione (cd. dimissioni in bianco).
Talora i datori di lavoro impongono, al lavoratore,(molto più spesso alla lavoratrice per aggirare il divieto di licenziamento in caso di gravidanza e puerperio ) come condizione per l'assunzione definitiva, la sottoscrizione di una lettera di dimissioni senza data, che quindi può essere poi utilizzata in qualsiasi momento, di fatto ponendo il lavoratore e la lavoratrice in una situazione di soggezione psicologica e ricatto.
Si tratta di una procedura sicuramente illegittima, in quanto diretta ad eludere norme di legge imperative (e cioè inderogabili)..
Spesso il problema è però quello di dimostrare l'esistenza di una simile lettera di dimissioni, e di impedirne l'utilizzo.
Una strategia potrebbe essere la seguente: una volta che sia terminato il periodo di prova “regolare”, e dunque l'assunzione sia divenuta definitiva ( nel caso di un raporto di lavoro a tempo indeterminato ), è possibile inviare una raccomandata al datore di lavoro, diffidandolo dall'utilizzare la lettera di dimissioni in suo possesso, in quanto illegittima e non sottoscritta spontaneamente.
A causa soprattutto delle proteste dei movimenti femminili che ne richiedevano il ripristino, come elemento di contrasto dei licenziamenti discriminatori a causa della gravidanza e maternità, la cosiddetta Riforma Fornero ( legge 92/2012) ha previsto una nuova procedura per rassegnare le dimissioni con l’obiettivo ( non riuscito ) di contrastare questo fenomeno e ogni altro tentativo del datore di estorcere dimissioni non volontarie.
L’attuale procedura a cui viene subordinata l’efficacia delle dimissioni. prevede due modalità differenti, a seconda che le dimissioni siano presentate o meno da lavoratrici/lavoratori che godono delle tutele in materia di maternità e paternità.
In particolare, quando si tratta di dimissioni presentate dalla lavoratrice in gravidanza o dalla lavoratrice/lavoratore durate i primi tre anni di vita del bambino (o di accoglienza del minore adottato o in affidamento), è necessaria la convalida di tali dimissioni da parte del servizio ispettivo del Ministero del lavoro competente per territorio: in sostanza, dopo che le dimissioni sono state presentate, le parti debbono convalidarle davanti al Servizio ispettivo del Ministero del lavoratore e la risoluzione del rapporto non può produrre effetti sino a che tale adempimento non venga effettivamente compiuto.
In tutti gli altri casi, affinchè le dimissioni possano produrre effetto, sono previste due alternative:
> dopo che le dimissioni sono state presentate o dopo che è stata sottoscritta la risoluzione consensuale del rapporto, le parti convalidano l’atto presso la Direzione territoriale del lavoro o il Centro per l’impiego territorialmente competente;
> il lavoratore sottoscrive una dichiarazione in calce alla comunicazione di cessazione del rapporto.
Anche in questo caso, la risoluzione del rapporto è sospensivamente condizionata all’adempimento di una delle due alternative.
Quando tali operazioni non vengano effettuate contestualmente all’atto, il datore di lavoro può, entro 30 giorni, invitare il lavoratore a presentarsi avanti alla DTL o al centro per l’impiego al fine di far convalidare lo stesso o di far sottoscrivere la dichiarazione di cui sopra.
Se il datore omette di inviare tale invito, le dimissioni o la risoluzione consensuale si intendono prive di effetto.
Successivamente ed entro sette giorni dall’invito, il lavoratore può:
>aderire ad esso e rendere efficace la risoluzione del rapporto di lavoro;
> non aderire all’invito: in questo caso, il rapporto si intende comunque risolto;
>revocare le dimissioni o la risoluzione consensuale (anche in forma scritta). In tal caso, il rapporto prosegue, ma il lavoratore non matura alcun diritto retributivo nel periodo intercorso fra le dimissioni e la revoca se, durante lo stesso, non sia stata svolta alcuna attività lavorativa.
NON DARE MAI LE DIMISSIONI, senza intavolare una trattativa. Anche se vuoi andare via è sempre meglio intavolare una trattativa sulla condizioni delle dimissioni
Quel che più conta però è che il licenziamento può essere impugnato avanti il Giudice del lavoro, mentre le dimissioni, salvo casi eccezionali, no.
Questo significa la possibilità di far verificare al Giudice che effettivamente sussistessero le ragioni che hanno portato al licenziamento (che in molti casi si rivelano, al vaglio della Magistratura, insussistenti). Nel suo caso si tratterebbe di accertare l’esistenza di un giustificato motivo oggettivo.
Nel caso in cui fosse esclusa la legittimità del licenziamento, al lavoratore- qualora si trattasse di aziende di più di 15 dipendenti- spetterebbe la tutela prevista dall’ art. 18 Statuto dei Lavoratori che- a seguito della Legge Fornero – , prevede quattro differenti forme di tutela a seconda del vizio da cui il licenziamento illegittimo è caratterizzato(per maggiori approfondimenti su questo punto, si veda il box Licenziamento Individuale).
E’ molto complicato revocare le proprie dimissioni, perché occorre dimostrare che la tua volontà è falsata da errore o violenza. Occorre però ricordare che come detto prima la legge fornero chide che le dimisisoni siano convalidate alla DPL
Il lavoratore può rassegnare le proprie dimissioni in tronco o senza preavviso, quando si sia verificata una causa che non consenta la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto.
La giurisprudenza ha riconosciuto le ipotesi di “giusta causa” facendo riferimento a gravi inadempimenti del datore nell’ambito del rapporto di lavoro (es. omessa corresponsione della retribuzione, omesso versamento dei contributi previdenziali, molestie sessuali, dequalificazione professionale);
in tal caso, proprio perché il recesso è stato determinato da un fatto colpevole del datore di lavoro, il lavoratore che recede per giusta causa conserva comunque il diritto a percepire l’indennità sostitutiva del mancato preavviso, nel caso di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Tale indennità spetta al lavoratore per motivi di equità, ossia a titolo di indennizzo per la mancata percezione delle retribuzioni per il periodo necessario al reperimento di una nuova occupazione, tenuto conto che l’interruzione immediata del rapporto è, in realtà, imputabile al datore di lavoro.
Nel caso in cui il datore di lavoro neghi l’esistenza di una giusta causa alla base del recesso del lavoratore, e si rifiuti così di versare l’indennità sostitutiva del preavviso, il lavoratore potrà agire in giudizio per chiedere l’accertamento della giusta causa delle dimissioni, e vedersi riconosciuto il diritto a percepire tale indennità, oltre che per la restituzione dell’importo eventualmente trattenuto a titolo di mancato preavviso.
Il lavoratore deve consegnare o inviare con tempestività la lettera con cui comunica la sua volontà di dimettersi per giusta causa, e cioè subito dopo il verificarsi della causa che ha reso impossibile la prosecuzione del rapporto. Tale comunicazione non necessita di specifiche formule, ma deve comunque fare riferimento alla giusta causa che ha determinato il recesso.
Il licenziamento è l’atto con cui il datore di lavoro recede dal rapporto di lavoro, per essere legittimo, deve essere supportato da una motivazione idonea a giustificarlo
la legge impone al datore di lavoro di comunicare il licenziamento per iscritto e afferma che il licenziamento verbale è inefficace
Il licenziamento comunicato solo oralmente non produce alcun effetto e, in particolare, non interrompe il rapporto di lavoro tra le parti, sicché il datore di lavoro è tenuto a continuare a pagare la retribuzione al lavoratore sino a quando non sopravvenga un’efficace causa di risoluzione o estinzione del rapporto di lavoro o l’effettiva riassunzione. Va comunque impugnato in 60 giorni.
E’ necessario che il lavoratore faccia pervenire immediatamente una raccomandata A/R (di cui si deve tenere copia) nella quale lo stesso si mette a disposizione per la ripresa immediata dell’attività dando conto del fatto di essere stato allontanato dal datore di lavoro.
Le conseguenze derivanti dal licenziamento intimato in forma orale sono ora espressamente disciplinate dall’art. 18 Statuto lavoratori, come modificato dalla legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro. ( cosiddetta “Riforma Fornero “). In particolare per questa ipotesi di licenziamento illegittimo si prevede la cd. tutela reintegratoria piena. Conseguentemente, il lavoratore ha diritto a:
1. essere reintegrato nel posto di lavoro
2. ottenere il risarcimento del danno per il periodo successivo al licenziamento e fino all’effettiva reintegra, dedotto quanto percepito da altra occupazione (il risarcimento non può comunque essere inferiore nel minimo di cinque mensilità di retribuzione)
3. ottenere il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per tutto il periodo dal giorno del licenziamento a quello della reintegra
4. scegliere fra la reintegra e l’indennità sostitutiva pari a quindici mensilità della retribuzione globale di fatto.
Impugnazione deve avvenire entro 60 giorni dalla ricezione della comunicazione del licenziamento in forma scritta.
L’impugnazione del licenziamento può essere fatta con qualsiasi atto stragiudiziale comunque idoneo a manifestare la volontà del lavoratore: normalmente basta una raccomandata A/R (di cui si deve tenere copia). Se sei in ritardo manda anche un telegramma.
Ti consigliamo tuttavia di metterti in contatto subito con uno sportello di CLAP per poter avere da subito la giusta assistenza e i migliori consigli su come scrivere la lettera di impugnazione
Inoltre devi sapere che l’impugnazione è efficace solo se è seguita entro i successivi 180 giorni, dal deposito in tribunale del ricorso oppure dalla comunicazione alla controparte della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione, per questo ti serve il supporto e il consiglio di uno sportello esperto e la consulenza di un legale (che puoi trovare gratuitamente presso i nostri sportelli, se ti iscrivi a Clap )
GIUSTA CAUSA
Comportamento del lavoratore che costituisca grave violazione ai propri obblighi contrattuali, tale da ledere in modo insanabile il necessario rapporto di fiducia tra le parti e che non consente la prosecuzione nemmeno temporanea del rapporto di lavoro (c.c. 2119).
La giusta causa pertanto, rappresenta nei fatti il licenziamento disciplinare per eccellenza; tale da troncare immediatamente il rapporto di lavoro senza neppure erogazione dell’indennità di preavviso.
In quanto sanzione disciplinare dovrà essere stata necessariamente preceduta dall’attivazione dell’obbligatorio procedimento disciplinare ed in particolare dalla preventiva comunicazione delle “contestazioni di addebito” al fine di consentire al dipendente una adeguata difesa da accuse eventualmente infondate.
I contratti collettivi elencano normalmente le ipotesi ed i fatti ritenuti tali da costituire giusta causa di licenziamento (per maggiori approfondimenti si veda Licenziamento per giusta causa);
GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO
E’ rappresentato da comportamenti disciplinarmente rilevanti del dipendente ma non tali da comportare il licenziamento per giusta causa, e cioè senza preavviso.
Anche il giustificato motivo soggettivo pertanto rientra nell’ambito dei licenziamenti di tipo disciplinare, costituendo pur sempre una sanzione a comportamenti ritenuti tali da incidere in modo insanabile nel regolare proseguimento del rapporto di lavoro.
Ricordiamo che il licenziamento di tipo disciplinare è soggetto ad una specifica procedura, la cui violazione rende nullo il licenziamento stesso.
Vengono fatte rientrare nell’ambito del giustificato motivo soggettivo anche le figure dello scarso rendimento e/o del comportamento negligente del dipendente.
Trattandosi comunque di valutazioni sul comportamento del dipendente, anche nelle ipotesi di “scarso rendimento”, perché il licenziamento sia considerato legittimo anche in questo caso è necessaria che sia stata effettuata la preventiva contestazione degli addebiti con diritto del dipendente a svolgere adeguatamente le proprie difese
GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO
E’ rappresentato da ragioni inerenti l’organizzazione del lavoro dell’impresa.
quali la crisi dell’impresa, la cessazione dell’attività e, anche solo, il venir meno delle mansioni cui era in precedenza assegnato il lavoratore, senza che sia possibile il suo “ripescaggio”, ovvero la ricollocazione del medesimo in altre mansioni esistenti in azienda e compatibili con il livello di inquadramento.
Vengono ricondotti alla figura del giustificato motivo oggettivo anche le ipotesi in cui il lavoratore perda, non per propria colpa, le capacità necessarie a svolgere le mansioni per cui venne assunto.
Tale ipotesi tuttavia è stata più volte oggetto controversie giudiziarie e la giurisprudenza ha delimitato tale fattispecie..
Tuttavia, il nostro ordinamento prevede ancora alcuni casi in cui il lavoratore può essere licenziato “ad nutum”, e cioè in assenza di una giusta causa o di un giustificato motivo. In particolare, ciò può avvenire esclusivamente nelle seguenti ipotesi:
Per tutti gli altri rapporti di lavoro, in assenza di una delle predette cause, il licenziamento comminato non può dirsi legittimo e il lavoratore ha il diritto di chiedere far valere le tutele previste dalla legge.
E' quindi estremamente importante che sia un esperto (sportello vertenze CLAP e studio legale specializzato in diritto del lavoro) a considerare nel merito le motivazioni addotte, così da verificarne l'attendibilità
La legge 92/2012 di riforma del lavoro ha introdotto importanti modifiche sulla materia del licenziamento.
La modifica più rilevante ha toccato l’art. 18 Statuto dei .Lavoratori, che tutela i lavoratori delle aziende con più di 15 dipendenti. Prima era prevista sempre la reintegra e il pagamenot di tutte le retribuzioni dal licenziamento alla reintegra. Adesso occorre fare un avalutazioen caso per caso.
Tutela reintegratoria “piena”
Tale tutela si applica:
È bene precisare che essa trova applicazione a prescindere dal numero di lavoratori occupati dal datore di lavoro ed è prevista anche a favore dei dirigenti.
In tali ipotesi, il giudice, dichiarando nullo il licenziamento, ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore al risarcimento del danno subito per il periodo successivo al licenziamento e fino alla reintegrazione e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per tutto il periodo intercorrente fra il licenziamento e la reintegrazione.
Il risarcimento del danno è rappresentato da un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento al giorno dell’effettiva reintegrazione e non può in ogni caso essere inferiore alle cinque mensilità (non è invece previsto un limite massimo).
Dall’importo deve essere dedotto quanto eventualmente percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative.
Fermo restando tale risarcimento, il lavoratore ha, comunque, la possibilità- entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza- di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro.
Il giudice, annullando il licenziamento, ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento del risarcimento del danno oltrechè al versamento dei contributi previdenziali per tutto il periodo fino alla reintegrazione effettiva. Il risarcimento, in questo caso, corrisponde ad una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto sia ciò che il lavoratore ha effettivamente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, sia ciò che lo stesso avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. Il legislatore fissa inoltre un limite massimo per il risarcimento, che non può in ogni caso superare un importo pari a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.Anche in tal caso, il lavoratore può optare per l’indennità sostitutiva della reintegra.
Tale tutela si applica in tutte le ipotesi non contemplate dalle altre tutele, qualora il giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro.In tal caso il giudice, dichiarando risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento, condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti;
Tale tutela si applica alle ipotesi in cui il licenziamento risulti illegittimo per carenza di motivazione o per inosservanza degli obblighi procedurali previsti per il licenziamento disciplinare o per il giustificato motivo oggettivo.
In tali casi il giudice, dichiarando l’inefficacia del licenziamento, condanna il datore di lavoro al pagamento di un indennità variabile tra sei e dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, da valutarsi da arte del giudice in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro.
La legge Fornero è intervenuta altresì in tema di licenziamento individuale per motivi economici, in relazione al quale è stata introdotta una nuova procedura in sede amministrativa, che deve obbligatoriamente essere esperita dai datori di lavoro a cui sia applicabile la disciplina di cui all’art. 18 ( le aziende con oltre 15 dipendenti ) e che intendano licenziare un lavoratore per giustificato motivo oggettivo, al fine di spingere le parti a trovare soluzioni consensuali alla controversia.
In questo caso, il licenziamento deve essere preceduto da una comunicazione preventiva alla Direzione territoriale del lavoro (Dtl), ove ha sede l’unità produttiva nella quale è impiegato il lavoratore. La comunicazione deve essere inoltre trasmessa per conoscenza a quest’ultimo
In tale comunicazione, il datore di lavoro deve indicare la propria intenzione di procedere al licenziamento e i motivi del medesimo, oltre alle eventuali misure per la ricollocazione.
Entro sette giorni dalla ricezione della richiesta, la Dtl trasmette alle parti la convocazione per un incontro (che si deve svolgere secondo le disposizioni contenute nell’art. 410 cod. proc. civ.) finalizzato ad esaminare eventuali soluzione alternative al licenziamento.
La procedura deve comunque concludersi entro 20 giorni dalla data di invio della convocazione, salvo che le parti non chiedano una proroga per arrivare ad un accordo o che la procedura non debba essere sospesa per legittimo impedimento del lavoratore (la sospensione non può comunque essere superiore a quindici giorni).
La procedura può concludersi in diversi modi:
Per questa ragione è molto importante che in sede di conciliazione il lavoratore sia supportato da un esperto/rappresentante sindacale di sua fiducia ( anche questa consulenza/servizio verrà garantito gratuitamente dagli esperti di CLAP a tutti i /le iscritti/e)
Qualora tale procedura non venisse rispettata, il licenziamento deve essere dichiarato inefficace ai sensi del nuovo art. 18 Statuto dei. lavoratori: in tal caso, il giudice applica la cd. tutela obbligatoria ridotta (condanna, cioè, il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria compresa fra sei e dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, misurandola il relazione alla gravità del vizio formale o procedurale commesso).
Il licenziamento nelle imprese che occupano meno di 15 dipendenti è disciplinato dalla legge 604/66
Questa legge stabilisce che il licenziamento deve essere fatto con atto scritto, prevedendo esplicitamente la nullità del licenziamento intimato a voce.
Inoltre, a richiesta del lavoratore, il datore di lavoro deve fornire le motivazioni che lo hanno indotto a procedere al licenziamento.
Se le ragioni addotte dal datore di lavoro non appaiono convincenti, il dipendente licenziato può rivolgersi al giudice del lavoro, che deve valutare se il licenziamento sia motivato da una giusta causa o da un giustificato motivo.
Nel caso in cui il si accertasse che non sussiste nè la giusta causa nè il giustificato motivo, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro a riassumere il dipendente, oppure, in alternativa, a versargli un risarcimento.
La misura del risarcimento deve essere predeterminata dal Giudice, tra un minimo di 2,5 ad un massimo di 6 mensilità di retribuzione, tenendo conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’impresa, dell’anzianità di servizio del lavoratore, nonchè del comportamento e della condizioni delle parti.
In ogni caso, prima di ricorrere al Giudice, è necessario promuovere il tentativo di conciliazione e arbitrato. Si tratta di una procedura, di regola attivata da una organizzazione sindacale, che si svolge presso l’Ufficio Provinciale del Lavoro e della Massima Occupazione, che ha il compito di cercare una soluzione bonaria della controversia. ( anche in questo caso il supporto degli esperti CLAP verrà offerto gratuitamente agli/alle iscritti/e)
In caso di accertata nullità del licenziamento anche per lavoratori di aziende fino a 15 dipendenti si ha diritto alla tutela reintegratoria piena, consistente in:
Infatti tale regime si applica, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, nei seguenti casi:
Eccezione fatto per licenziamento per giusta causa (ovvero un inadempimento del lavoratore talmente grave, da rendere intollerabile la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto), Il licenziamento deve essere intimato con il preavviso stabilito dal contratto collettivo di categoria.
Durante il periodo di preavviso, di regola, il lavoratore deve continuare a prestare la sua attività lavorativa.
Tuttavia il datore di lavoro può dispensare il lavoratore da tale obbligo; in un simile caso, il datore di lavoro dovrà corrispondere al lavoratore l'indennità sostitutiva, pari alle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato durante il preavviso.
Dispensare il lavoratore dall'obbligo di lavorare durante il preavviso comporta vantaggi e svantaggi. Dal primo punto di vista, si deve osservare che il lavoratore mantiene il diritto alla retribuzione, senza dover prestare la propria attività lavorativa. Di contro, con la corresponsione della indennità sostitutiva del preavviso, il rapporto di lavoro viene immediatamente a cessare, e il lavoratore perde gli eventuali benefici che avrebbe potuto conseguire qualora il rapporto di lavoro fosse proseguito, sia pure solo fino alla scadenza del preavviso. Per esempio, il lavoratore non fruirà degli aumenti retributivi che andranno a regime dopo la cessazione del rapporto. Inoltre, il lavoratore perderà i vantaggi derivanti dall'effetto interruttivo che la malattia ha nei confronti del preavviso.
Si vede quindi che, a seconda dei casi, talvolta il lavoratore potrebbe essere interessato a lavorare durante il preavviso; altre volte, l'interesse potrebbe essere quello di percepire la corrispondente indennità sostitutiva.
In ogni caso il lavoratore non può, senza il consenso del datore di lavoro, pretendere di non effettuare la prestazione lavorativa, ricevendo in cambio l'indennità. Simmetricamente, il datore di lavoro non può, senza il consenso del lavoratore, pretendere che quest'ultimo non lavori, accontentandosi di ricevere l'indennità.
Più precisamente, se il datore di lavoro rinuncia al preavviso lavorato, il lavoratore non può unilateralmente pretendere di lavorare; tuttavia, può, se lo ritiene, fruire di tutti i benefici economici e normativi che gli sarebbero dovuti se lavorasse. A questo fine, è necessario comunicare tempestivamente e per iscritto al datore di lavoro il proprio dissenso alla dispensa del preavviso lavorato, invitandolo a ricevere la propria prestazione lavorativa e avvertendolo che, in difetto, egli non è liberato dagli obblighi che sarebbero derivati qualora fosse stata adempiuta la prestazione lavorativa durante il preavviso.
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione recentemente hanno risolto un contrasto che divideva i Giudici in merito alla possibilità di licenziare un lavoratore diventato inidoneo, per motivi di salute, allo svolgimento della sua mansione.
Le Sezioni Unite sono partite dal presupposto che la prestazione del lavoratore diventato inidoneo è realmente impossibile, con conseguente legittimità del licenziamento, a condizione che quel lavoratore non possa svolgere altra mansione professionalmente equivalente a quella che gli era stata assegnata.
Per questo motivo, il Giudice deve considerare sia le residue capacità lavorative del lavoratore, che l’organizzazione aziendale; sulla scorta di questa comparazione, potrà essere valutata la persistenza dell’interesse del datore di lavoro alla prestazione di quel lavoratore. In ogni caso, spetta al datore di lavoro provare l’impossibilità di utilizzare altrimenti quel lavoratore.
Tuttavia, mancando nell’organizzazione aziendale una mansione equivalente, l’indagine deve essere estesa anche alle mansioni dequalificanti in quanto la salvaguardia del posto di lavoro è un bene primario, per tutelare il quale è ammissibile sacrificare interessi di minor rilevanza, qual è appunto quello che sottende il divieto di dequalificazione.
La pronuncia delle Sezioni Unite ha esteso la verifica della possibilità di utilizzare altrimenti il lavoratore anche in mansioni dequalificanti. In questo modo, si solleva il delicato problema (non nuovo, per la verità) della possibilità di sacrificare interessi pur importanti in nome della tutela di altri interessi, ritenuti prioritari. In ogni caso, rispetto all’orientamento che era prevalente, la sentenza delle Sezioni Unite rappresenta sicuramente un sensibile passo in avanti, perché sancisce comunque il principio che la sopravvenuta inidoneità del lavoratore non costituisce di per sé un giustificato motivo di licenziamento.
L’apprendistato è definito dalla legge come un “contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e alla occupazione dei giovani”.
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Si tratta di una tipologia contrattuale cosiddetta a causa mista , in quanto oltre alla normale causa di scambio (Lavoro/retribuzione ) tipica del contratto di lavoro subordinato, si pone la finalità formativa.
La normativa in materia è oggi integralmente racchiusa nel D.Lgs. 14 settembre 2011, n. 167, cd. Testo unico sull’apprendistato
Il Testo Unico del 2011 in materia di contratto di apprendistato ha chiarito una volta per tutte che esso è un contratto a tempo indeterminato fin dall’origine, con le seguenti peculiarità. Nel periodo compreso tra l’instaurazione del rapporto e il termine dell’attività formativa il dipendente può essere licenziato solo per giusta causa o giustificato motivo. Allo scadere del termine, il datore di lavoro ha la facoltà di risolvere il rapporto a norma dell’art. 2118 del codice civile e nel rispetto dei termini di preavviso indicati dal CCNL di riferimento.
Qualora il datore di lavoro non si avvalesse di tale facoltà, il rapporto continuerà conformemente alle normali regole che disciplinano i rapporti di lavoro a tempo indeterminato.
Si tratta quindi a tutti gli effetti di una tipologia di lavoro subordinato, con tutto ciò che ne consegue in termini di applicazione della normativa a tutela del lavoratore dipendente tuttavia presenta delle peculiarità derivanti dalla missione formativa, che incidono direttamente sui requisiti formali e sostanziali del contratto e sul trattamento economico .
Inoltre ad oggi, (a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione) la funzione formativa è demandata alle Regioni, che. per quanto riguarda l’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale e l’apprendistato di alta formazione, hanno il compito di prevederne integralmente la parte formativa, mentre, per quanto riguarda l’apprendistato professionalizzante, hanno il compito di definire un’offerta formativa nei limiti di 120 ore nel triennio.
Attualmente la legge prevede tre diverse tipologie di apprendistato.
Questa tipologia è quella più largamente diffusa, può essere utilizzata in tutti i settori di attività pubblici o privati ed è rivolta ai giovani di età compresa tra 18 e 29 anni ( può essere stipulata già a partire dal diciassettesimo anno di età con i soggetti che abbiano già conseguito una qualifica professionale ai sensi del d.lgs. 226 del 2005)
La determinazione della durata, anche minima, del contratto è totalmente rimessa agli accordi interconfederali ed ai contratti collettivi, ma per la componente formativa la legge fissa il limite massimo di durata in tre anni, elevati a cinque per le figure professionali dell’artigianato individuate dalla contrattazione collettiva.
L’art. 7, comma 4, del Testo unico prevede infine la possibilità di ricorrere all’apprendistato per la qualificazione o riqualificazione professionale di lavoratori in mobilità. In tal caso non è previsto alcun limite di età per la stipulazione del contratto, né sono individuati limiti di durata.
Per quanto concerne la disciplina del contratto di apprendistato, il nuovo Testo unico rimanda esplicitamente a quanto definito in sede di contrattazione collettiva.(l’art. 2, comma 1, della legge fa infatti esplicito rimando agli accordi interconfederali ed ai contratti collettivi nazionali di lavoro), limitandosi a fissare una serie di principi generali, ai quali le parti sociali dovranno attenersi e che possiamo riassumere nei seguenti punti:
Di conseguenza Tutti i CCNL (Contratti nazionali di lavoro) definiscono le condizioni normative e retributive riferite allo svolgimento dell’apprendistato nello specifico settore. Vengono altresì previste specifiche tabelle retributive riferite agli apprendisti che dispongono il progressivo aumento delle retribuzioni nel corso del tempo con avvicinamento al 100% della retribuzione spettante agli addetti alla medesima mansione e qualifica professionale.
Infine il Testo Unico prevede che il numero complessivo di apprendisti che un datore di lavoro può assumere, direttamente o indirettamente tramite agenzie di somministrazione non può essere superiore al cento per cento dei dipendenti specializzati e qualificati in servizio presso datore di lavoro medesimo, con possibilità di deroga per colui che non abbia dipendenti specializzati o qualificati o ne abbia in numero inferiore a tre. In tal caso possono essere assunti non più di tre apprendisti.
Il d. lgs. 167/2011 e la legge di stabilità 2012, al fine di incentivare l’utilizzo dell’apprendistato e di promuovere l’occupazione giovanile, hanno introdotto agevolazioni contributive a favore dei datori di lavoro che assumono con questo contratto di lavoro ed in particolare hanno stabilito che: .
Sì, l’attuale normativa non esclude che possa attivarsi un contratto di apprendistato in part time per tutte e tre le forme previste, tuttavia la parte formativa non può essere ridotta (come minimo 120 ore nel triennio), quindi la riduzione oraria sarebbe solo a carico delle ore effettivamente lavorate.
Quel che conta sapere è che nel diritto del lavoro prevale sempre la sostanza e pertanto occorre valutare se, come spesso avviene, in realtà il lavoratore non venga formato, ma semplicemente l’apprendistato sia un modo per dissimulare un normale rapporto subordinato.
La non effettuazione della formazione in un contratto d’apprendistato configura la possibilità per la lavoratrice di rivendicare il rapporto di lavoro a tempo indeterminato a far data dall’instaurazione del rapporto stesso, con il diritto a richiedere tutte le differenze retributive e contributive spettanti, ivi compreso il riconoscimento della qualifica professionale corrispondente alla mansione svolta. Tuttavia tale riconoscimento non è automatico ma è necessario promuovere una vertenza sindacale o , più frequentemente un ricorso giudiziale presso il tribunale del lavoro nei confronti del datore di lavoro .
Ti suggeriamo perciò di contattare direttamente uno sportello CLAP , per poterti consigliare e avere tutte le informazioni necessarie. Nel caso decidessi di fare causa potrai trovare anche assistenza di un legale specializzato in diritto del lavoro.
Il contratto di assunzione in apprendistato deve essere stipulato necessariamente in forma scritta e sottoscritto dal datore di lavoro e dall’apprendista.
Il contratto deve contenere:
1) l’attività lavorativa (prestazione) oggetto del contratto;
2) la durata del periodo di prova e del periodo di formazione in apprendistato, nell’ambito dei limiti massimo e minimo fissati dalla legge e dalla contrattazione collettiva;
3) il livello di inquadramento iniziale, intermedio e finale;
4) la qualificazione contrattuale che potrà essere acquisita al termine del rapporto
Il periodo di formazione previsto per l’apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere ha una durata massima di tre anni; per le aziende artigiane la durata della formazione può arrivare fino a 5 anni. Le durate indicate vanno sempre intese come limite massimo.
E’ previsto anche un limite minimo di durata pari a sei mesi, tranne per le attività che si svolgono in cicli stagionali individuate dalla contrattazione collettiva.
Il contratto di apprendistato deve essere sempre accompagnato dal Piano Formativo Individuale (PFI), che deve essere perfezionato entro il limite massimo di 30gg. dalla stipula del contratto. Esso deve contenere:
• i dati relativi all’azienda, all’apprendista e al tutor o referente aziendale;
• l’indicazione del profilo professionale o formativo di riferimento, tra quelli elaborati dalla contrattazione collettiva, con gli obiettivi da conseguire espressi in termini di conoscenze e competenze;
• le modalità di articolazione e di erogazione della formazione di competenza aziendale
Ecco il caso di un comportamento elusivo, finalizzato ad aggirare la legge: infatti il Testo unico dell’apprendistato ( D. lgs 14 settembre 2011, n167) prevede esplicitamente che il contratto di apprendistato sia un contratto a tempo indeterminato a tutti gli effetti, se , concluso il periodo di formazione, prosegue il rapporto di lavoro in essere con le stesse mansioni e attività per cui è stato attivato il contratto di apprendistato. Il contratto a progetto sarà nullo.
Quindi delle due l’una : o il tuo datore di lavoro attesta che non hai conseguito le competenze professionali, richieste per svolgere le mansioni per cui è stato attivato a suo tempo il contratto e quindi , rescinde il rapporto di lavoro a conclusione del percorso formativo ( in genere tre anni, ma se lavori presso un artigiano può essere anche di 5 anni ) oppure deve proseguire con un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Poiché si tratta di una questione molto delicata che può determinare o meno la possibilità di proseguire nel l’attuale rapporto di lavoro, ti consigliamo di prendere un appuntamento con uno sportello di Clap per poter valutare con piena cognizione di causa le azioni da intraprendere.
Ogni categoria lavorativa ha un o più contratti nazionali di riferimento (nel tuo caso quello delle imprese artigiane metalmeccaniche) che comprende norme specifiche relative ai trattamenti degli apprendisti, ivi comprese le tabelle salariali, che variano in rapporto con l’anzianità aziendale, l e competenze di partenza, e la qualifica lavorativa attribuita e da conseguire.
Sul sito del CNEL o in quelli dei sindacati di categoria, puoi trovare e consultare le tabelle analitiche di ogni contratto, ti suggeriamo comunque di venire presso uno sportello di Clap, perché verificare tutti gli aspetti della retribuzione non è semplice e presso i nostri sportelli potrai trovare volontari esperti nella verifica delle retribuzioni che potranno aiutarti a conoscere al meglio i tuoi diritti.
NORMATIVA DI RIFERIMENTO
D.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30, artt. 47 – 53
D.lgs. 14 settembre 2011, n. 167, Testo unico dell’apprendistato
Legge 12 novembre 2011, n. 183, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità per il 2012), art. 22
Contratto Collettivo di Lavoro applicato nell’azienda
Legge 28 giugno 2012 n. 92, Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita
Decreto Legge 28 giugno 2013, n. 76, convertito in Legge 9 agosto 2013, n. 99
In linea generale, con il termine “lavoratori a partita IVA” si indica la categoria di soggetti che effettua, nei confronti di un altro soggetto, prestazioni di lavoro autonomo.
Per trovare una fonte normativa, si può far riferimento alla nozione di contratto d’opera fornita dagli art.dal 2222 al 2228 del Codice civile e quindi considerare lavoratore autonomo chi compie un’opera o un servizio richiesto da un committente con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione. In caso di prestazioni d’opera intellettuale si fa riferimento anche agli articoli 2229-2238 sempre del Codice civile.
Nella maggior parte dei casi le prestazioni di lavoro remunerate con partita IVA implicano lo svolgimento della propria prestazione lavorativa con modalità proprie del lavoro subordinato. Quindi, se il rapporto di lavoro è remunerato a partita Iva ma si osserva un orario di lavoro e/o non si possiede la proprietà dei mezzi con cui si lavora e/o si è sottoposti al potere disciplinare e/o si osservano delle direttive (anche di massima) sul lavoro da svolgere, ebbene è possibile agire giudizialmente per ottenere un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con tutte le differenze retributive tra quanto percepito e quanto previsto per la subordinazione.
Sempre più spesso però il lavoratore è costretto dal committente/datore di lavoro ad “aprirsi una partita IVA” per puro risparmio del costo del lavoro e per eludere gli obblighi e tutele previdenziali e assicurative ( versamenti INPS, iscrizione all’INAIL), in tutti questi casi siamo di fronte alle cosiddette “false partite IVA”.
La legge 92/2012 ( cosiddetta Riforma Fornero) , per contrastare quest’abuso , ha introdotto un cosiddetto “principio di presunzione”.
Nel merito La legge Fornero prevede che la presunzione di una falsa partita IVA si determini qualora l’attività del collaboratore con partita Iva sia contraddistinta da almeno due dei seguenti presupposti:
Di conseguenza in presenza di uno o più degli elementi predetti è possibile ottenere un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e le differenze retributive.
Dal momento in cui si apre la partita iva, per ogni prestazione effettuata si deve emettere fattura che, oltre al compenso pattuito deve contenere la rivalsa Iva (22 per cento) e la ritenuta d’acconto Irpef (20 per cento).
I redditi dei lavoratori con partita Iva sono classificati fiscalmente come redditi di lavoro autonomo.
Le spese sono interamente deducibili dal reddito solo se inerenti all’attività. Le spese relative all’acquisto di beni adibiti promiscuamente all’esercizio della professione e all’uso personale sono deducibili nella misura del 50 per cento.
Il reddito imponibile è tassato in sede di dichiarazione dei redditi (obbligatoria per i titolari di partita iva anche in caso di reddito zero) secondo il principio di acconto e saldo, applicando le aliquote progressive vigenti per scaglioni di reddito (Irpef, addizionali regionali e comunali).
Con la stessa dichiarazione dei redditi si dovrà versare l’Irap nella misura del 4,25 per cento per i redditi oltre 8.000 euro.
Il titolare di partita Iva è obbligato alla registrazione delle fatture su appositi registri (registro delle fatture emesse e registro degli acquisti) alla liquidazione trimestrale e/o mensile dell’Iva, nonché alla relativa liquidazione annuale.
Il regime dei minimi prevede l’esclusione di Iva, Irap, Studi di settore e relative dichiarazioni, tenuta delle scritture contabili. Rimane l’obbligo della presentazione della dichiarazione dei redditi Irpef (Mod. Unico).
I ricavi e i compensi relativi al regime dei minimi non devono essere assoggettati a ritenuta d’acconto e le fatture emesse dovranno recare la seguente dicitura:
“Prestazione svolta in regime fiscale di vantaggio ex art. 1 commi 96-117 legge 244/2007 come modificato da art. 27 del D.L. 98/2011 e pertanto non soggetta a IVA né a Ritenuta d’acconto ai sensi provvedimento direttore agenzia Entrate n. 185820”.
Dal 1° gennaio 2012 tale regime si applica per il periodo d’imposta in cui l’attività è iniziata e per i quattro successivi, ma non oltre il periodo d’imposta di compimento del 35° anno di età alle persone che:
L’imposta sostitutiva dell’imposta sui redditi e delle addizionali regionali e comunali è del 5%, a condizione che sussistano i seguenti requisiti (art. 1 commi da 96 a 99 legge 244/2007 )
Accedono al regime contabile agevolato coloro che, per effetto delle nuove disposizioni di cui all’art. 27 comma 3 D.L. 98/2011, fuoriescono dal regime dei minimi e che comunque hanno le seguenti caratteristiche:
Inoltre possono accedere al regime contabile agevolato i soggetti che, avendo le caratteristiche di cui ai commi 96 e 99 art. 1 della legge 244 del 24/12/2007, hanno optato per il regime fiscale agevolato per le nuove iniziative imprenditoriali (art. 13 legge 23/12/2000 n. 388).
I soggetti che si avvalgono del regime contabile agevolato sono esonerati dai seguenti obblighi:
Sono invece obbligati ai seguenti adempimenti:
Chi è in possesso di partiva Iva è obbligato ad iscriversi alla gestione separata Inps se esercita un’attività che non prevede l’iscrizione a un albo o a un ordine provvisto di cassa previdenziale specifica.
L’iscrizione è obbligatoria anche se si hanno contributi versati nel fondo dei lavoratori dipendenti: in tal caso c’è solo una riduzione dell’aliquota dovuta.
La contribuzione è a totale carico del lavoratore con partita Iva: egli ha la possibilità di addebitare nella fattura il 4 per cento del compenso lordo a titolo di rivalsa previdenziale.
LE ALIQUOTE CONTRIBUTIVE 2013 DEL FONDO GESTIONE SEPARATA
PRESTATORI DI LAVORO AUTONOMO OCCASIONALE senza altra copertura previdenziale obbligatoria | 27,72% |
PRESTATORI DI LAVORO AUTONOMO OCCASIONALE con altra copertura previdenziale obbligatoria titolari di pensione indiretta | 20% |
PRESSO GLI SPORTELLI CLAP POTRAI TROVARE ANCHE LA CONSULENZA DI UNA COMMERCIALISTA E L’ASSISTENZA DEL CAAF PER TUTTE LE PROCEDURE E INFORMAZIONI DI NATURA FISCALE E CONTRIBUTIVA CONNESSE CON LA GESTIONE DELLA PARTITA IVA