Riforma Fornero – legge 28 giugno 2012, n.92.
La “legge Fornero” aveva come incipit alla sua creazione le finalità di migliorare la flessibilità in entrata, riducendo le tipologie contrattuali atipiche e temporanee a favore di quelle a tempo indeterminato, e di introdurre nuovi elementi a favore della flessibilità in uscita, sia in materia di licenziamento (modifica dell’art. 18) che di ammortizzatori sociali.
La prima finalità è però contraddetta dalla modifica più importante introdotta in materia di contratti temporanei, con la possibilità di stipulare il primo contratto a termine, o di lavoro somministrato, senza la necessità di specificare la ragione per cui si assume a termine, con un limite massimo di durata che può arrivare fino a dodici mesi.
Questa modifica peggiora gravemente la condizione sociale dei lavoratori precari, destinati a passare da un’impresa all’altra e da un “primo” contratto a termine o somministrato all’altro, senza possibilità di crescita professionale e perdendo la possibilità di far valere i diritti collegati alla carenza di una reale necessità da parte dell’impresa di impiegare solo temporaneamente quel lavoratore.
In merito alla riduzione delle tipologie contrattuali, l’unico contratto eliminato è il contratto di inserimento, del quale peraltro viene meno la necessità per le imprese, libere ora di assumere a termine.
Sulla seconda finalità, la Riforma Fornero è finalizzata a rinnovare la normativa in materia di licenziamento modificando l’art. 18. Per quanto rigurda i licenziamenti, sono cambiati i tipi di conseguenze in cui il datore di lavoro incorre nel caso di provvedimento illeggittimo, ma non sono cambiati i tipi di licenziamento: i licenziamenti discriminatori e quindi nulli; i licenziamenti per motivi disciplinari, con applicazione, secondo i casi nell’ipotesi di annullamento del licenziamento, della reintegrazione ovvero dell’indennità risarcitoria; i licenziamenti per motivi economici, con applicazione solo eventuale della reintegrazione (nei casi di più manifesta ingiustificatezza) o del solo indennizzo.
Fino alla riforma, la reintegrazione rappresentava l’unica conseguenza in caso di licenziamento illeggittimo. Adesso il reintegro continua ad applicarsi per il licenziamento orale e per quello discriminatorio, per gli altri casi si prevede un’indennità risarcitoria, il cui ammontare è quantificato dal Giudice a secondo che sia una violazione formale (da sei a dodici mensilità) o un provvedimento insufficentemente motivato (da dodici a ventiquattro mensilità).
Sembra evidente che le conclusioni di molti ricorsi di impugnazione dei licenziamenti economici, che saranno la stragrande maggioranza se non addirittura l’esclusività, dovranno essere finalizzate a rivendicare la discriminazione, il motivo illecito determinante e la sanzione disciplinare simulata, dopo avere smontato (ove possibile) la motivazione economica.
La finalità di rinnovare il sistema di welfare si riducono nella creazione dell‘Aspi una sorta di sussidio di disoccupazione di durata di massimo 12 mesi e di contenuto modesto, privo di un reale carattere di universalità, poiché si attiva solo al versamento preventivo di contributi da parte del disoccupato. Sono esclusi coloro che il posto di lavoro non l’hanno mai avuto o che lo hanno avuto per un periodo contributivo inferiore al minimo stabilito dalla legge (almeno 13 settimane contributive nel periodo di un anno per poter accedere alla mini Aspi).
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