di Francesco Raparelli e Cristian Sica
Poco dopo la tornata elettorale, che ha avuto come protagonisti l’astensione e il naufragio del Partito della Nazione, arrivano i numeri tanto attesi: il rapporto ISTAT indica, nel mese di aprile, una lieve riduzione della disoccupazione (0,2%), e soprattutto di quella giovanile (che comunque supera il 40%). Se letti con maggiore attenzione, e raffrontati a quelli raccolti nelle ultime settimane, emerge un quadro di gran lunga diverso. È urgente dunque un’opera di demistificazione, capace di cogliere la verità del processo in atto e di indicare – a un’iniziativa di movimento che non si rassegna alla marginalità – i punti di attacco. Ciò che proviamo a fare nel breve testo che segue.
1. Il Jobs Act è la quinta riforma del mercato del lavoro realizzata in Italia negli ultimi quattro anni, anni segnati dalla più grave crisi economica e occupazionale del secondo dopo guerra. Ispirata al modello tedesco, e fortemente voluta dalla Commmissione Europea e dalla BCE (ricordate la famosa lettera del 5 agosto del 2011?), è dichiarata come la vera priorità da attuare dal governo Renzi, costantemente elogiata dalla governance globale (FMI in testa) e dalla stampa tutta (o quasi) per i risultati ottenuti. I dati diffusi dal ministero del Lavoro il 25 maggio scorso, e riguardanti l’andamento degli avviamenti, delle cessazioni e delle trasformazioni dei contratti di lavoro nel mese di aprile 2015, non ratificano di certo la “primavera dell’occupazione”. Dovrebbero essere analizzati, piuttosto, come il segno di una vera e propria “bolla occupazionale”, che sta prendendo forma nel mercato del lavoro italico.
Roma 15 maggio – Comunicato stampa
Continua la mobilitazione della “Coalizione 27 febbraio” per l’equità previdenziale, la sostenibilità fiscale, il welfare universale
24 giugno Speakers’ Corner sotto il ministero del Lavoro e del Welfare
Dopo la riuscita mobilitazione dello scorso 24 aprile, l’incontro con Boeri che di essa è stato importante completamento, la “Carovana dei diritti” non si ferma. Lo ha deciso la partecipata assemblea della “Coalizione 27 febbraio” che si è svolta sabato 9 maggio presso l’atelier autogestito Esc.
La Germania è diventata uno “Streikland”, scriveva un paio di giorni fa la Süddeutsche Zeitung. Con lo sciopero dei macchinisti della Deutsche Bahn, che per settimane è riuscito a paralizzare il paese, quello dei lavoratori e degli educatori dei Kindergarten e quello di una parte del personale della Deutsche Post, il 2015 rischia di diventare l’“anno di fuoco”, l’anno col maggior numero di giorni di sciopero in Germania. Le statistiche, prontamente pubblicate sui maggiori quotidiani tedeschi, riportano però subito alla realtà, mostrando come, in confronto a paesi quali la Francia o la Danimarca o la Spagna, i numeri tedeschi tornino subito a ridimensionarsi, ripiombino entro il recinto della norma. Placate subito gli animi dunque, non sta accadendo nulla di eccezionale!
E se tante volte qualcuno nutrisse ancora qualche dubbio, puntuale come una mannaia, il Governo Federale Tedesco ha pensato immediatamente a scioglierlo. Dopo che la GDL, sindacato minore che ha condotto con determinazione radicale le settimane di sciopero dei macchinisti, aveva acconsentito a una tregua temporanea, nel momento in cui l’azienda aveva accettato, oltre l’aumento salariale del 5% e la diminuzione delle ore di lavoro, anche la possibilità che la GDL rappresentasse altre categorie lavorative (in aperta contrapposizione col maggiore sindacato del settore, la EVG), ecco giungere, con inquietante e scientifica puntualità, una proposta di legge di nuova regolamentazione del diritto di sciopero e della rappresentanza sindacale nei posti di lavoro. Non casualmente critici e oppositori l’hanno anche chiamata “Lex GDL”, in quanto risposta immediata e diretta, forse in primo luogo, contro il sindacato che più ha dato filo da torcere al governo nell’ultimo periodo. Proposta di legge che, neanche a dirlo, viene dalla SPD, in particolar modo dalla giovane socialdemocratica Andrea Nahles, Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali nel governo di coalizione di Angela Merkel. “Il conformismo, che è sempre stato di casa nella socialdemocrazia, non riguarda solo la sua tattica politica, ma anche le sue idee economiche. Ed è una delle cause del suo sfacelo successivo”, scriveva Walter Benjamin nel 1939. Suonerà banale e ridondante, ma forse, di questi tempi, è bene tenerle sempre a mente queste parole.
Sabato 18 aprile, alle Officine Zero di Casal Bertone, si è tenuta la prima assemblea generale delle iscritte e degli iscritti delle Camere del Lavoro Autonomo e Precario. Circa ottanta persone, in rappresentanza di quasi 200 iscritti, si sono confrontate per quasi tre ore a partire dal racconto della propria condizione lavorativa e di vita, segnata da precarietà, sfruttamento, mancati pagamenti, licenziamenti, buchi normativi, assenze di tutele, disoccupazione.
Al Presidente, Egregio Dott. Boeri,
siamo lavoratori, professionisti autonomi, atipici e ordinisti, parasubordinati, precari della ricerca, studenti, iscritti al programma ‘Garanzia giovani’; Le scriviamo perché venerdì 24 aprile saremo sotto il suo ufficio, con un’intenzione chiara: poterLa incontrare, presentarLe le nostre istanze.
In queste settimane abbiamo letto con attenzione le Sue dichiarazioni: una vera e propria proposta di riforma del sistema previdenziale, che presenterà al governo entro giugno. Abbiamo notato la Sua insistenza sull’estensione in senso universalistico delle protezioni sociali, così come l’indisponibilità di Palazzo Chigi a prestarLe ascolto. Ci è chiaro: Lei ha in mente un nuovo INPS capace, riprendiamo le Sue parole, di combinare previdenza e assistenza. Non sono casuali, dunque, i Suoi espliciti riferimenti ad un reddito minimo di cittadinanza per gli over 55 che perdono il posto di lavoro e non possono accedere alla pensione; all’idea di ricalcolare le pensioni alte con il metodo contributivo per una redistribuzione delle risorse verso il basso (così auspichiamo e abbiamo capito); all’unificazione dei trattamenti previdenziali. Al centro l’«operazione trasparenza», in netta controtendenza rispetto alle politiche del suo predecessore.